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giovedì, 30 agosto 2018

Nel caleidoscopio balcanico

Nel diario del nono itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica” (agosto 2018) l’ennesima conferma che questa regione europea continua a trasmetterci suggestioni generalmente incomprese sulla post-modernità

di Michele Nardelli

Il viaggio che ci porta verso l’Europa di mezzo è estenuante. Le code per lavori di terze o quarte corsie (come se il problema fosse quello di fare spazio piuttosto che di interrogarsi su questi flussi che percorrono l’Europa), il traffico di vacanze esasperate, il rientro di migranti per assecondare radici che col tempo verranno definitivamente tagliate, i confini interni all’Unione Europea – che sulla carta non dovrebbero esserci più – che il vento sovranista vorrebbe ripristinare e quelli che le guerre degli anni ’90 hanno sancito insieme all’imbroglio dell’identità nazionale: per arrivare a Kozarska Dubica, al confine fra Croazia e Bosnia Erzegovina, ci impieghiamo quattordici ore.

“Che fregatura”

Lungo il tragitto una sosta a Zugliano, nei pressi di Udine, per incontrare l’amico Bozidar Stanisi, scrittore e poeta bosniaco di rara sensibilità, con il quale iniziamo a scrutare il caleidoscopio balcanico o, come lui preferisce, il laboratorio insieme economico, sociale, culturale e generazionale che i Balcani hanno rappresentato negli anni ’90 e in questo lungo dopoguerra. Laddove un’esperienza fra le più originali com’era stata quella jugoslava fallisce e implode per l’effetto combinato di fattori interni ed esterni, in un ingorgo fratricida che trascinerà con sé un’umanità resa oltremodo fragile dal carattere paternalistico del vecchio regime e da una coscienza di sé segnata dai fantasmi di un passato non elaborato.

Avverto nelle parole di Bozidar lo sconforto di una generazione che si era sentita protagonista di un vivace fermento sociale e culturale che aveva attraversato la Jugoslavia degli anni ’70 e che si è trovata senza nemmeno accorgersene alla mercé dei nuovi barbari cresciuti nelle pieghe degli apparati, statali o militari che fossero. Che in Bozidar non è nostalgia del passato («quel che è accaduto doveva accadere»), ma la sensazione di essere stati defraudati. La percezione degli avvenimenti c’è – afferma Bozidar – ma nei termini di una passività che porta molte persone a dire “che fregatura!”. “Benvenuti nel deserto del post socialismo” non è solo il titolo di un libro su quel che è accaduto in queste latitudini (e non ancora tradotto in italiano), è l’esito di questo tragico laboratorio che ha fatto tabula rasa di vite, città e villaggi, storia e cultura, utopia e istanze egualitarie, welfare e mobilità sociale.

E la stanchezza del sentirsi apolide, clandestino per la vita, scaraventato più o meno per caso nel “regno della sedia”1.

Nel cuore dell’Europa

Riprendiamo il nostro viaggio verso oriente sotto un sole cocente. Al confine di Fernetti non ci sono code, a testimonianza di come le linee migratorie che la guerra degli anni ’90 produsse investì in maniera assolutamente marginale questo nostro paese, incapace di reggere – oggi come ieri – flussi altrove ben più consistenti. Le code le troveremo più avanti, ancora lavori di allargamento delle arterie di una società sempre più opulenta e, questa volta sì, di migranti che tornano alle origini facendo spesso bella mostra di auto potenti, simboli esibiti di quel passaggio (o così percepito) fra esclusione ed inclusione che ha preso il posto della vecchia lotta di classe.

E poi l’incubo dei confini, di quella costruzione mentale e tragicamente concreta che il delirio degli stati nazione continua a produrre a difesa di improbabili identità. Con noi ci sono alcuni ragazzi che sono nati dopo l’abbattimento delle frontiere interne all’Unione Europea. Fare chilometri di coda è, se vogliamo, ancora niente rispetto all’incertezza del passaggio alle frontiere quando – come vedremo – un documento ti certifica “cittadino del nulla”.

E’ notte quando siamo ancora alla frontiera di Jasenovac, là dove nella seconda guerra mondiale sorse uno dei più terribili campi di concentramento realizzati dagli Ustaša (i fascisti croati alleati di Hitler e di Mussolini). Qui durante la seconda guerra mondiale persero la vita quasi centomila fra serbi, ebrei, partigiani, oppositori. E rom, benché questa popolazione non rientri in quella tragica contabilità, ammazzati a randellate prima ancora di essere registrati. Vi sorge un importante memoriale, malgrado il revisionismo che attraversa la Croazia, che dà significato all’immenso giglio di cemento armato realizzato negli anni ’60 su progetto dell’architetto Bogdan Bogdanovic nel grande prato in cui sorgeva il campo e che durante l’ultima guerra qualcuno avrebbe preferito abbattere.

Fin qui non ci sono riusciti, ma le due ore in fila per entrare in Bosnia Erzegovina, a ben pensarci, hanno a che fare con quello stesso nazionalismo che risorge ogniqualvolta si discriminano le persone per un nome, un cognome, la colorazione della pelle o l’orientamento culturale, religioso o sessuale. Insomma, i criteri per i quali si finiva in quel campo. Ci eravamo proposti di visitarlo, ma a quest’ora è chiuso.

Snjezana e Dragan ci aspettano all’ingresso di Kozarski Dubica. Ho conosciuto Snjezana Durici più di vent’anni fa, poco più di una ragazzina ma già efficace interprete per tradurre dall’italiano al serbo/croato/bosniaco, in ambienti spesso ostili e poco propensi al dialogo non accondiscendente, quell’approccio comunitario con il quale cercammo di dare un significato diverso alla nostra cooperazione. Ora, fra le varie cose che sta facendo, Snjezana è animatrice del antiche coltivazioni&nbsp

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