sabato, 23 dicembre 2017
23 Dicembre 2017giovedì, 15 marzo 2018
15 Marzo 2018Lo Spazio Off di Trento, come loro lo definiscono una «piccola “fucina” artistica e teatrale» è gremito. Certo, la sala all’inizio di Via Venezia non sarà il teatro Petruzzelli, ma in ogni caso lo spettacolo “La conquista della felicità. Dialogo fra Bertrand Russell e Cassiopea” è giunto alla terza settimana di repliche, sempre con il “tutto esaurito”. Davvero interessante, segno di una città che sa ancora apprezzare il linguaggio del teatro.
Ripercorrere la vita di un filosofo, matematico e pacifista dai tratti controversi come Bertrand Russell, fra l’aristocrazia dei suoi natali e la prigione per le sue idee, attraverso un secolo ancor più controverso come il Novecento, fra grandi speranze e altrettanto spaventose tragedie, in poco meno di un’ora non è un’impresa agevole. Eppure il monologo di Stefano Detassis riesce nell’intento di farci attraversare l’una e l’altro con la leggerezza di una favola ma anche con la profondità della riflessione, laddove lo sguardo a ritroso può divenire una bussola per navigare un presente non meno accidentato. Sempre che quello sguardo qualcuno intenda raccoglierlo.
Finito il viaggio teatrale lo Spazio Off propone in questa serata un momento di incontro con chi in questo tempo quel testimone ha cercato di raccoglierlo ed in particolare quella parola – pace – che tanto ha caratterizzato il viaggio terreno del pensatore inglese e che oggi sembra aver smarrito nella banalizzazione che se ne è fatta il suo messaggio. Così, insieme a Massimiliano Pilati, interpreti a modo nostro di un’istituzione importante (quand’anche inascoltata) qual è il Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani, ragioniamo con il pubblico presente di come dare una nuova possibilità alla pace.
Perché è incredibile come di pace se ne parli a vanvera, fino a giustificare la guerra con il suo corollario di arsenali, di ricerca e di produzione bellica, di commercio d’armi, di militarizzazione delle società, di oppressione e di sfruttamento. E di morte, distruzione e dolore. Forse la più grande, e trasversale, ipocrisia del nostro tempo.
Ipocrisia che ha segnato il Novecento con il suo triste primato di morte, facendone il secolo degli assassini. Che quello sarebbe stato il tempo degli assassini, l’aveva intuito Arthur Rimbaud in una delle sue Illuminazioni che intitolò “Matinee d’ivresse” (Mattinata d’ebbrezza), immaginando quel che sarebbe accaduto con l’applicazione della rivoluzione industriale alle tecniche della guerra:
«O mio Bene! O mio Bello! Fanfara atroce in cui non vacillo! Cavalletto fiabesco! Urrà per l’opera inaudita e per il corpo meraviglioso, per la prima volta! Ebbe inizio fra le risate dei bimbi, finirà grazie a loro. Questo veleno resterà in tutte le nostre vene anche quando, voltasi altrove la fanfara, verremo restituiti all’antica disarmonia. Oh in questo momento, noi così degni di queste torture! riuniamo con fervore la sovrumana promessa, questa demenza! L’eleganza, la scienza, la violenza! Ci hanno promesso di sotterrare nell’ombra l’albero del bene e del male, di deportare le onestà tiranniche, affinché recassimo il nostro tanto puro amore. Ebbe inizio con qualche nausea e finì, – non potevamo impadronirci subito di quell’eternità, – finì in uno scompiglio di profumi.
Risate dei bimbi, discrezione degli schiavi, austerità delle vergini, orrore degli aspetti e degli oggetti di qui, vi consacri il ricordo di questa vigilia. Iniziata nella rustichezza, ecco ha termine fra angeli di fiamma e di gelo.
Piccola vigilia d’ebbrezza, santa! non foss’altro, per la maschera di cui ci gratificasti. Metodo, noi ti affermiamo! Noi non dimentichiamo che ieri hai glorificato ciascuna delle nostre età. Noi abbiamo fede nel veleno. Noi sappiamo donare ogni giorno la nostra vita intera.
Questo è il tempo degli Assassini».
Oggi, un secolo e mezzo dopo trascorso nell’incapacità di far tesoro del passato e ancora schiavi di quella “sovrumana promessa”, quel progresso che Walter Benjamin ebbe a descrivere come la tempesta che spinge nell’abisso l’Angelo della storia, è ancora la poesia a venirci in aiuto. Quella di Fabrizio De Andrè che ci racconta di un Mediterraneo fonte di conoscenza e di sapere attraverso la figura di Sinan Capudan Pascià, marinaio genovese che divenne gran visir ottomano:
«E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü