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Il paesaggio non è cambiato. Quali insegnamenti dal voto di domenica scorsa?

«La maledizione di vivere tempi interessanti’ (58)

di Michele Nardelli

(8 dicembre 2016) In effetti sono queste giornate piene di sole, nonostante qui il freddo cominci ad essere pungente. Ma il paesaggio (quello sociale e politico) continua ad essere inguardabile, come lo era del resto anche prima del voto di domenica scorsa.

A San Basilio, quartiere popolare di Roma che negli anni ’70 faceva parlare di sé per le lotte sociali, la gente caccia via una famiglia di immigrati dalla casa popolare che regolarmente era stata loro assegnata gridando “qui i negri non li vogliamo”. Un italiano su quattro è a rischio di povertà ma la corsa ai consumi voluttuari non accenna a diminuire. Ogni giorno ci sono due incidenti mortali sul lavoro, ma l’importante è far soldi (anche a scapito della sicurezza) e la velocità è diventata un valore. I cambiamenti climatici rendono i nostri territori fragilissimi ma non ti azzardare a proporre clausole di salvaguardia ambientale perché ti tiri addosso l’ira delle comunità. Siamo da tempo oltre la sostenibilità ma a Marrakech la conferenza sul clima si conclude con l’impegno, si fa per dire, di un regolamento per l’attuazione degli accordi di Parigi da stilare entro il dicembre 2018. L’Europa è devastata dai nazionalismi, ma ci si commuove di fronte all’inno di Mameli. La distruzione della città più antica del mondo (Aleppo) ormai non fa più notizia in una guerra che è già costata più di mezzo milione di morti, ma poi ci sembra naturale che il governo Renzi stanzi 14 miliardi di euro per gli F35…

 

 

 

Certo, possiamo dire che almeno per il momento l’equilibrio della Costituzione Italiana non è stato stravolto, grazie ad una partecipazione elettorale che non si vedeva da molto tempo e ad un’espressione di merito inequivocabile1. E che il disegno di stampo plebiscitario e centralistico atto a snaturare l’impianto istituzionale nella logica del “chi vince piglia tutto” e dello svuotamento delle autonomie locali ha subito una forte battuta d’arresto.

Ciò nonostante – lo ripeto – il paesaggio non è cambiato. Basta scorrere il cinquantesimo rapporto del Censis2 pubblicato proprio nei giorni precedenti il voto per comprendere come questo paese sia attraversato da dinamiche sociali e culturali che destano incertezza e paura, stati d’animo che la politica tende ad assecondare quando non a cavalcare temendo di perdere consenso. E, a guardar bene, tutto questo non riguarda solo l’Italia, perché nell’interdipendenza questi sono i segni del tempo, negli Stati Uniti come in Europa.

E’ il paesaggio, dunque, l’oggetto di osservazione. Non solo e non tanto il referendum, sempre che non vogliamo vedere il dito anziché la luna. Il dito semmai è l’esito del paesaggio, è la forzatura di chi ha smarrito l’idea che la politica sia un processo collettivo e di una cultura plebiscitaria che pensa di governare i processi sociali attraverso i sondaggi d’opinione. Ma è la luna – in questo caso la terra (il paesaggio appunto) – che dovremmo cercare di osservare.

Comprendere quello che in questi anni è avvenuto tanto sul piano delle condizioni materiali, quanto su quello dei processi culturali. E’ l’insieme di questi fattori che ci può far comprendere il significato della parola “spaesamento”, lo smarrimento delle funzioni sociali e la perdita del senso di sé, ovvero la solitudine sociale.

La politica avrebbe dovuto essere l’antidoto, la cura del paesaggio per restare nella nostra metafora. E invece, la politica ha pensato bene di considerare questi processi ineluttabili (anche perché figli di questo tempo globale) e dunque di assecondarli nella loro ferocia sociale (la finanziarizzazione dell’economia in primis), nelle forme cattive che la paura sa assumere, nell’affidarsi al capo carismatico da mettere nelle condizioni di agire in fretta e senza ostacoli (il culto della velocità e della semplificazione).

Categorie che, per la verità, albergano in entrambi gli schieramenti referendari e quindi leggere l’esito del voto come la vittoria di questo o quell’altro soggetto politico appare del tutto fuorviante. Come non mi convince che il No sia l’esito della protesta dei giovani o del Mezzogiorno per una specifica condizione sociale o territoriale. Il sud e le isole votano seppur in misura più netta come il nord, dove il No prevale ovunque tranne in Sud Tirolo, per effetto di una poco accorta (e pericolosa) scelta di scambio politico.

La condizione sociale pesa, non c’è dubbio, ma il proposito referendario perde anche in Trentino dove i parametri della qualità della vita sono ai primi posti a livello europeo.

E allora c’è qualcosa più di fondo, riconducibile all’incertezza verso il futuro e l’assenza di un progetto collettivo che ha a che fare con l’idea darwinista che solo qualcuno ce la può fare e che l’esclusione è un dato normale, con il prendere corpo di una società a compartimenti stagni e fortemente corporativa, con una cultura della legalità che è quanto di più ipocrita e conservatore si possa immaginare visto che la deregolazione è il portato in primo luogo dei mercati finanziari e delle guerre, laddove il limite fra criminalità organizzata e potere è più che mai sfumato.

E poi c’è anche qualcosa di più specifico, relativo ai contenuti di una “riforma” che è stata percepita come un modo nemmeno tanto nascosto ma intollerabile per governare senza contrappesi e con una classe dirigente selezionata per fedeltà.

Questo referendum ha il pregio di evidenziare, come mai negli ultimi tempi, che la crisi della politica è di sguardo, non di governabilità. Il problema non è quello di semplificare un contesto complesso, e nemmeno quello di velocizzare i tempi delle decisioni perché più che la fretta occorre il giudizio.

Alla radice delle crisi (uso il plurale non casualmente) non c’è tanto il cattivo funzionamento delle istituzioni, bensì l’incapacità di leggere il presente e di indicare scenari sostenibili per il futuro. Il che richiederebbe di adeguare le categorie interpretative, nuove visioni e inediti strumenti, a partire dai quali immaginare anche possibili riforme negli ordini costituzionali sovranazionali, nazionali e territoriali (vedi Terzo Statuto). Una per tutte, quella cittadinanza europea che oggi è messa duramente alla prova dal combinato disposto di ottuse burocrazie e poteri finanziari, egoismi e nuovi nazionalismi.

Si è detto che il Sì era per l’Europa e il No contro, ma bastava ascoltare gli ultimi scampoli di campagna referendaria per comprendere che entrambi gli schieramenti erano più simili che mai nell’avversione alla cessione di sovranità, tanto verso l’alto (l’Europa) quanto verso il basso (il federalismo responsabile3).

Anziché interrogarsi sulla natura delle crisi (economica ed ecologica, morale e politica…) che devastano questo nostro tempo, si preferisce far leva sui peggiori istinti, dando risposte congiunturali (ed emergenziali) a problemi di carattere strutturale, non capendo che il problema non è il rilancio dei consumi ma un diverso (e sostenibile) rapporto con le risorse, non è l’assecondare le spinte corporative ma un nuovo patto di cittadinanza improntato sulla responsabilità e l’autogoverno, non è lo scontro di civiltà ma la conoscenza della storia che ci accomuna più di quanto sappiamo immaginare, non è l’armarsi ma l’agire su ciò che sta alla base dell’insicurezza. E, tornando al referendum di domenica scorsa, non era quello di rafforzare gli esecutivi a scapito dell’equilibrio dei poteri, bensì di favorire i processi di conoscenza e di responsabilizzazione, di coesione e di partecipazione.

Questo vale anche per quanto riguarda le nostre autonomie. Oltre alla (tentata) controriforma del Titolo V, pensare di affidare la tutela delle autonomie speciali all’accordo politico con questa o quella maggioranza è stato (ed è) un grave errore politico. Peraltro palese nel momento in cui Renzi ed altri esponenti della sua maggioranza hanno affermato che la questione delle specialità regionali rappresentava un’anacronistica anomalia che non c’era stato il tempo (e la convenienza, aggiungo io) di correggere. Non è del resto casuale che alcuni esponenti della maggioranza abbiano proposto in Parlamento un riordino delle regioni italiane che prevedeva il loro accorpamento, secondo il quale il Trentino e il Sudtirolo sarebbero finiti in un indistinto nord-est, ritirato come atto parlamentare ma assunto come proprio orientamento dal Governo.

Spero (ma il confronto seguito al voto mi dice che non ci si dispone ad imparare) che questa lezione possa servire a comprendere che non abbiamo bisogno di “uomini soli al comando”, a prescindere dagli schieramenti. Oggi la prima riforma dei processi politico istituzionali dev’essere quella partecipativa, non la ricerca del demiurgo abile e astuto a cui affidare le sorti di una comunità. E che al proprio declino altro non sa immaginare che il diluvio.

La cura del paesaggio non sono le elezioni anticipate invocate in queste ore da questa stessa classe dirigente, ma una rigenerazione politica che nasca nel profondo della società e che investa non solo i partiti ma l’insieme dei corpi intermedi sofferenti dello stesso male.

Senza questo processo la sconfitta di Renzi non porterà a nulla se non al riprodursi dello stesso arido paesaggio che abbiamo conosciuto nel degrado ai limiti del volgare di quest’ultima campagna elettorale.

1Vedi la tabella del voto, provincia per provincia http://www.repubblica.it/static/speciale/2016/referendum/costituzionale/.

2Il rapporto si può acquistare in libreria. La presentazione del 50° Rapporto la potete ascoltare in https://youtu.be/06BPDBwJPkg

3Uso questa qualificazione concettualmente superflua per lo strame che si è fatto del concetto di federalismo.

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