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Senza primarie non c’è democrazia?

di Alessandro Branz

Vorrei sviluppare qualche riflessione a margine dell’Assemblea provinciale del Partito Democratico del Trentino di ieri (6 maggio).

Toccherò in particolare due punti: la discussione si è quasi interamente incentrata sulle regole: come scegliere i candidati PD alla Presidenza della Provincia e come organizzare le primarie di coalizione con le altre forze politiche. Ne sono scaturite due posizioni piuttosto divergenti: chi propone la convocazione di assemblee territoriali che possano individuare dei nominativi e chi invece non è per nulla disposto a rinunciare, neppure per la scelta del candidato interno, alla celebrazione delle primarie.

I due percorsi comportano oggettivamente logiche diverse.

Nel primo caso la consultazione della base dovrebbe far emergere delle indicazioni che inevitabilmente dovrebbero essere prese in considerazione e valutate dagli organismi dirigenti a livello provinciale. E qui entra in gioco quella che qualcuno ha definito “democrazia delegata”, ma che in realtà potrebbe meglio esser definita come “democrazia rappresentativa”. In tal senso non è per nulla scandaloso che l’organismo collegiale (l’Assemblea provinciale) abbia la legittimità di prendere una decisione. Il punto è che le assemblee territoriali vengano realmente ascoltate, cosa che non è avvenuta in occasione della scelta delle candidature al Senato, quando la risoluzione a favore di Tonini, convenuta nell’assemblea di Trento, fu completamente disattesa. Quindi, come qualcuno ha intelligentemente detto nel corso del dibattito di ieri, bisognerebbe che quanto risulta dalle assemblee territoriali fosse raccolto e dettagliatamente riportato all’attenzione dell’Assemblea provinciale, che quindi ne dovrebbe tenere conto. E quanto più partecipate sono le assemblee territoriali, tanto maggiore sarà la possibilità che le loro indicazioni non siano disattese.

Nel secondo caso invece (adozione delle primarie) ci si affida al voto, facendo della competizione politica soprattutto una competizione elettorale. Nulla di male, neppure in questo frangente: sapendo però che la procedura di cui al punto precedente ha il pregio di premettere all’eventuale voto una discussione (che molto probabilmente toccherà i contenuti vincolando ad essi le candidature), mentre nel caso di primarie è molto più facile che intervenga una “personalizzazione” della competizione, vincolando non il candidato ai contenuti, ma i contenuti al candidato.

Il punto però che vorrei chiarire è che non è corretto affermare, come molti interventi hanno evidenziato, che l’unica vera partecipazione è quella delle primarie e che senza il ricorso a queste ultime vengono addirittura disattesi i principi fondativi del PD. Non è corretto per tre ragioni: sia perché le primarie sono uno strumento e non un fine; sia perché la partecipazione è qualcosa di più complesso e duraturo nel tempo, non può limitarsi al solo momento del voto e deve implicare un rapporto continuo e pregnante fra rappresentati e rappresentanti, magari attraverso procedure di discussione e confronto che possano influenzare i luoghi deputati alla decisione (è il grande tema della “democrazia deliberativa”, sul quale è stato recentemente presentato a Trento un bel libro di Antonio Floridia); sia perché -infine- le primarie sono compatibili con (e non necessariamente alternative a) un partito dotato di una base organizzata, che discute nei circoli contribuendo alla formazione di una vera e propria “opinione pubblica” interna al partito stesso, che instaura un continuo flusso di comunicazione con i gruppi dirigenti, a loro volta indotti dalla discussione interna a confrontarsi, render conto del proprio operato, applicare meccanismi di accountability e responsiveness nei confronti della base. Affinché però ciò avvenga e la compatibilità tra partito strutturato e primarie sia possibile, queste ultime debbono riacquistare il significato originario di strumento di selezione delle candidature, essere per così dire ricondotte alla loro vera natura e non essere viste come la cartina di tornasole, quasi l’attestato notarile, della natura democratica di un partito. Perché in tal caso esse si celebreranno sempre e comunque, a prescindere dal fatto che siano utili o meno nel caso concreto.

2) Come ho detto, la discussione si è incentrata quasi esclusivamente sulle regole, sulla base di un confronto piuttosto acceso tra modelli diversi di partito, rispondenti a filosofie che sembrano per certi versi inconciliabili e ripropongono fratture non risolte. In particolare da questo tipo di dibattiti riemerge e si riaffaccia in molti interventi il c.d. modello “veltroniano”, che è del tutto legittimo, sia chiaro, ma che sostanzialmente si ispira ad una visione leaderistica di partito, implicante un rapporto “diretto” ed “immediato” del leader con la base (l’esempio locale è costituito da Luca Zeni, che lancia la propria candidatura in una convention “esterna” al partito, non in una discussione interna).

Mi faccio però a tal proposito due domande:

primo) questo modello è compatibile con un partito che faccia della democrazia il proprio punto di riferimento, la propria ispirazione ideale ed anche il proprio metodo di lavoro, non limitandosi a fungere da “macchina elettorale” funzionale quasi esclusivamente alla selezione della classe dirigente (che è certamente una funzione fondamentale dei partiti, ma non l’unica)?

secondo) può un partito continuare a dividersi sulle regole e non confrontarsi (quasi) mai sui contenuti? Fino a quando può durare una situazione in cui una discussione radicale come questa potrebbe anche preludere ad una scissione? E’ sostenibile a lungo tutto ciò? Perché allora non creare le occasioni, gli spazi, i luoghi di un confronto vero e reale sulle questioni sociali ed economiche, sulle cose da fare, sulle proposte da avanzare per il Trentino? Non potrebbe essere questa anche l’occasione per conferire al PD quell’identità che oggi dimostra di non avere, nella convinzione che se ci si confronta sui contenuti le distanze interne potrebbero anche diminuire? In questo senso qualcosa si sta muovendo: la proposta (di Barca ed altri) di applicazione della democrazia deliberativa alla vita interna del partito ne è un esempio. Anche se purtroppo la strada appare ancora lunga… un motivo in più per rimboccarsi le maniche e approfittare delle prossime scadenze congressuali per aprire una discussione vera.

7 maggio 2013

1 Comment

  1. vincenzo cal¡ ha detto:

    caro Branz, il tempo stringe e il brutto tarda a finire: è certo vero, come dice il pescatore ne “il vecchio e il mare”, che “brutto tempo non è tutto il tempo”, ma intanto anche qui da noi è tempesta. Il modello veltroniano non vale più? E allora accettiamo le primarie aperte di coalizione con più candidati del PD che sulle questioni di merito presentano proposte, anche se “divisive”. Se poi Zeni entra nel merito non in sede di partito mi pare oggi francamente secondario. Forse il modello proposto da Nicoletti può funzionare. Purché si decida in fretta. Se il segretario se ne facesse carico fino in fondo, partecipando alle primarie….