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Bipolarismo da riformare

di Alessandro Branz

Dal dibattito congressuale del Partito democratico, sta emergendo in questi giorni una questione che, per quanto di natura politologica, dovrebbe tuttavia interessare tutti i cittadini: quella della tenuta o meno del “bipolarismo”.

Infatti Franceschini, facendosene paladino, paventa il rischio che, se dovesse prevalere la mozione Bersani, il bipolarismo faticosamente instauratosi in Italia rischierebbe di essere fortemente compromesso e con esso potrebbe venir meno la stessa democrazia dell’alternanza.

La questione -lo ripeto- è interessante a prescindere dalla polemica interna al Pd e proprio per questo va affrontata con cautela. Innanzitutto domandiamoci: di quale “bipolarismo” stiamo parlando? Infatti, dopo la stagione riformatrice rappresentata dai referendum elettorali dei primi anni novanta e dopo il fallimento della terza Bicamerale, a partire grosso modo dal 2001 (e perlomeno sino alle elezioni politiche del 2008) è prevalsa l’idea che il bipolarismo italiano, per quanto fondato su coalizioni ampie, frammentate e conflittuali, fosse sufficientemente consolidato nella coscienza dei cittadini. Per cui il problema non stava nella riforma del sistema elettorale, ma semmai nel garantire e potenziare “dall’alto” il bipolarismo esistente, con incisive riforme costituzionali finalizzate ad impedire i ribaltoni e conferire al primo ministro più poteri, fra i quali quello di sciogliere il parlamento in caso di eccessiva conflittualità e paralisi decisionale. Una visione del tutto originale nel panorama europeo (comparabile semmai alla fallimentare esperienza israeliana), che trovò una sponda nel progetto di riforma costituzionale elaborato dal centro-destra (poi per fortuna bocciato in sede referendaria), ma che attrasse anche alcuni intellettuali di sinistra, convinti della necessità di bruciare le tappe e solidificare il sistema con misure incisive, anche se rigide, vincolanti e costrittive. Lo stesso “premio di maggioranza”, tuttora vigente a livello nazionale e mai messo in discussione neppure dai recenti referendum, risponde a questa logica.

In realtà non è così che funzionano i sistemi bipolari in Europa. Essi sono più sobri, e nel contempo più dinamici ed aperti. Molti di essi (la maggior parte) continuano a rimanere di tipo “parlamentare” e quindi rifuggono da meccanismi troppo vincolanti che rischiano di irrigidire il funzionamento delle istituzioni, impedendo al sistema di autocorreggersi in caso di malfunzionamento. Ma soprattutto si reggono su partiti grandi e strutturati che rappresentano le colonne portanti del sistema, non solo perché assicurano il collegamento fra società e istituzioni e costituiscono la migliore garanzia affinché non si rompa il necessario equilibrio fra governo e parlamento, ma anche perché sono in grado di garantire, con la loro precisa scelta di campo alternativa, il mantenimento del sistema bipolare, senza inutili forzature. 

Un bipolarismo quindi flessibile e non rigido, dinamico e non statico, capace di correggere i propri errori e basato per lo più sulla capacità dei partiti e dei propri leader di fare politica, trovare le necessarie convergenze ideali e programmatiche, creare le condizioni per alleanze capaci di governare.

Mi domando: perché ciò non può avvenire anche in Italia? Soprattutto oggi, che dopo le elezioni dello scorso anno (anche per merito della strategia di Veltroni) ci troviamo di fronte ad un sistema con pochi, significativi partiti (i maggiori dei quali alternativi fra loro), molto simile ai più importanti sistemi europei del continente, perché non abbandoniamo il bipolarismo coatto imposto per legge ed una vocazione maggioritaria che spesso si fa “ossessiva”, per aprirci con modestia e voglia di imparare alle esperienze straniere a noi più vicine? I modelli di riferimento sono più d’uno, anche se il tanto vituperato sistema tedesco, con la sua capacità di valorizzare i partiti e le loro identità, dare all’elettore una reale capacità di scelta e razionalizzare il parlamentarismo senza snaturarlo, mi pare oggi il più indicato. Comunque ciò che importa è cogliere lo spirito più genuino di quei sistemi, quindi tornare a far politica sul serio, alimentando un clima nuovo e più rispondente alle domande dei cittadini, che esigono contenuti e scelte, non formule vuote ed imposte dall’alto.

Alessandro Branz è assessore alla cultura del Comune di Sanzeno e iscritto al circolo Pd Valle di Non

 

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