sabato, 10 ottobre 2009
10 Ottobre 2009
mercoledì, 14 ottobre 2009
14 Ottobre 2009
sabato, 10 ottobre 2009
10 Ottobre 2009
mercoledì, 14 ottobre 2009
14 Ottobre 2009

domenica, 11 ottobre 2009

Giornata molto complessa. Siamo ad oriente e a Beit Jala fa giorno molto presto. Sono le sei del mattino e già sono al lavoro. In tarda serata Luciana mi ha inviato un messaggio dal Primiero: all’incontro con Roberto Pinter per le primarie del PD del Trentino c’era tanta gente e tutt’intorno tanti funghi. Così, tanto per farmi pesare l’assenza. Ma la cosa mi rincuora perché riuscire a smuovere il popolo del PD (e non solo) è segno che ancora c’è voglia di discutere e confrontarsi.

Alle 8.00 mi chiama Gabriella che ha appena finito di leggere il diario di ieri e mi fa piacere perché sono le emozioni che avrei voluto condividere con lei. Con Erica Mondini proviamo a contattare Flavio Lotti, della Tavola della Pace di Perugia, ma non ha tempo per noi. Così il nostro andare da un albergo all’altro per concordare le cose da fare non serve a nulla. Questo modo di fare tutto verticale, per cui o si è allineati alle disposizioni che vengono dal centro o altrimenti non esisti, non mi piace affatto e mi riprometto di parlagliene alla prima occasione. Che un territorio cerchi di costruire le proprie relazioni territoriali a prescindere dall’iniziativa nazionale dovrebbe essere la vera svolta di questa iniziativa, ma così non è e siamo esattamente alle solite. In tanti sono venuti in Palestina, saranno contenti di testimoniare qualcosa di eticamente importante, magari facendo scandalo come qualcuno ha detto nella preparazione di questa iniziativa, e poi questa terra tornerà nel proprio incubo. Che abbiamo contribuito anche noi a costruire in anni di cattiva cooperazione all’insegna dell’aiuto e del tifo, senza comprendere che oggi noi e loro abbiamo in primo luogo bisogno di ragionare. Di capire quel che non ha funzionato, del perché si è perso.

Ne parliamo fra noi e sono coinvolti anche i ragazzi che fanno parte della nostra delegazione e che vorrebbero trovare il modo di sentirsi utili alla causa. C’è la frustrazione di toccare con mano una profonda ingiustizia e di avvertirsi impotenti e nell’impossibilità di attivare risposte radicali. C’è in qualcuno di loro un po’ di pregiudizio, pensano che siamo dei pacifisti all’acqua di rose, un po’ vigliacchi di fronte al pericolo. Ma parlarne è utile e vedo che si apre una crepa nelle loro certezze. Mi viene da dire che un po’ di responsabilità è anche nostra perché non sempre siamo disponibili a parlarne, erigendo muri di incomunicabilità. Fors’anche perché interrogarci su come noi rappresentiamo la politica o semplicemente le nostre idee non farebbe assolutamente male.

Andiamo nel Centro civico di Beit Jala dove si dovrebbe svolgere l’inaugurazione della festa per l’inizio del raccolto delle olive e ci accorgiamo che in realtà non c’è nessuna festa, ma un po’ di bancarelle di vendita di artigianato e prodotti locali in una struttura che ancora non è aperta, motivo questo – come abbiamo già scritto in questo diario – di discussione con il Sindaco di Beit Jala che vorrebbe ultimare i lavori esterni prima di aprire il centro. Gli diciamo che verificheremo la possibilità di un piccolo contributo ma che contestualmente vorremmo che la società civile si muovesse affinché quel luogo entri effettivamente nel cuore della comunità.

Sono di cattivo umore e un po’ la contraddizione brucia. Brucia il fatto che andiamo parlando di un diverso modo di intendere la cooperazione e poi ricadiamo negli stessi errori, in questo caso nella realizzazione di un centro che fino ad oggi la comunità ha vissuto come un luogo estraneo. Ma nel pomeriggio un po’ dovrò ricredermi. Al workshop con le associazioni e l’amministrazione comunale (quest’ultima in preda ad una forte crisi politica) partecipano molte persone. Si avverte che fra loro non ci sono pratiche comuni, ciascuno a parlare della propria associazione peraltro non si sa quanto rappresentativa. E inizia la litania delle richieste. Mentre finisce il giro di parola delle numerose associazioni presenti (donne, giovani, scout ortodossi e cattolici, anziani, madri, gruppi teatrali ed artistici, gruppi per il recupero dei vecchi prodotti alimentari, assistenzia ed altro ancora) arriva Ali Rashid e nella sala c’è un po’ di brusio. C’è anche un po’ di confusione perché non è chiaro lo scopo dell’incontro. Qualcuno se ne va, ed allora è il momento giusto per intervenire.

Parlo loro di noi, non di una ong fra le tante che hanno conosciuto nel corso degli anni ma di una comunità che si mette in gioco in una relazione di amicizia. Non siamo portatori di denaro, anche se il luogo dove siamo l’abbiamo finanziato come Trentino. Dico loro che troppo denaro è arrivato in Palestina senza che questo fosse in grado di sedimentare qualcosa di partecipato e sostenibile e che dovrebbero diffidare dalla logica degli aiuti. Dico loro che siamo lì per comprendere il tempo che viviamo, conoscere, capire quale sia il bandolo della matassa dopo che il popolo palestinese ha provato tutte le strade. Domanda che la cooperazione finora non si è neppure posta, presa com’è da un fare autoreferenziale ed inconcludente. E parlo della ricchezza del loro territorio, che in primo luogo sta nella dignità delle persone. Vedo quelli seduti  davanti a me annuire e alla fine la gente applaude.  Presento Ali Rashid che interviene proseguendo nel solco del mio ragionare. Fa leva sull’orgoglio delle persone, parla della pietra rossa di Beit Jala e da man forte al mio ragionamento con la sua autorevolezza e la sua voce suadente.

A questo punto, il tono prima contraddittorio della discussione prende un’altra piega e l’incontro diventa propositivo.  La gente si avvicina, vorrebbe proseguire il confronto, in diversi chiedono di rivederci prima della nostra partenza. Seguono i balli e avverto una straordinaria affinità con quelli balcanici, prodotto di una comune identità mediterranea. E poi la presentazione del più grande vestito tradizionale palestinese, prodotto grazie al lavoro manuale di centinaia di donne e alla tenacia di Paola, ragazza calabrese che vive a Hebron. Saluto Ali che rivedrò nella serata di domani ed andiamo a cena, un po’ più rilassati che al mattino. Quant’è difficile (e costosa in termini di impegno) la cooperazione di comunità.

Proviamo a risentire gli esponenti del Tavolo della Pace ma non danno segni di vita. Domattina alle 6 dovremmo partire per Sderot, non lontano dalla Striscia di Gaza. La notte ci porterà consiglio.

 

Comments are closed.