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giovedì, 13 agosto 2009

Ho creduto troppo in fretta di aver liquidato questa specie di influenza che da alcuni giorni mi dà tosse spasmodica e mal di gola. E così sono ancora a letto. Non ho la febbre e almeno riesco a leggere e a prendere qualche appunto.

Due giorni nei quali mi sono dedicato alla lettura integrale delle mozioni congressuali nazionali del PD (che peraltro potete trovare su questo sito). Non si tratta di tesi congressuali vere e proprie – nella mia lunga storia politica ho avuto a che fare con ben più impegnativi documenti – ma di mozioni politico programmatiche, quasi a voler riprodurre in piccolo le famose 284 cartelle di Romano Prodi. Insomma, più o meno una quindicina di cartelle per ciascun documento ad indicare una serie di idee per l’Italia, non poi molto diverse fra loro (anche se sappiamo che dietro ciascuna mozione ci sono modi diversi di intendere le alleanze e la forma-partito).

Nasce qui una prima domanda. Siamo sicuri che il problema del PD non sia a monte, ovvero della necessità di indagare sul presente, su quel che è accaduto nel bene e nel male nel corso del Novecento e su quel che il secolo lungobreve ci ha lasciato? E dunque sugli strumenti interpretativi e su quel bisogno di sintesi di culture più volte evocato e mai realizzato? Di questo, nelle mozioni congressuali, non c’è quasi traccia.

Della crisi dell’economia globale e delle sue ragioni profonde, del neoliberismo e della fine dell’umanesimo evocata attraverso lo "scontro di civiltà" non si dice praticamente nulla, quasi che l’avvento al potere negli USA di Obama avesse tolto tutti dall’imbarazzo e che un ventennio di guerre e di delirio finanziario fossero scomparsi come d’incanto.

Per la cronaca, vorrei ricordare che quest’anno decorre il triste decennale dell’intervento armato della Nato (e con essa dell’Italia) in Kosovo e in Serbia che vide protagonista l’allora premier Massimo D’Alema. Un cenno di ripensamento? Sull’Afghanistan, oggi l’Occidente è impantanato come lo fu a suo tempo l’Unione Sovietica… Un ripensamento? Dovrà proporlo Obama? O Bossi, che pure ha imposto il tema del progressivo disimpegno nell’agenda politica del governo italiano?

Sulla crisi che ha sconquassato l’economia e la finanza globale solo poche righe dando per scontata la natura di quel che è accaduto, rimuovendo il fatto che solo un anno fa la critica ai processi di finanziarizzazione dell’economia non aveva anche nelle nostre stanze granché cittadinanza. Senza neanche accorgersi che passata la bufera tutto sta tornando come prima. Un prima che non dà scampo, perché dove la finanza muove una massa dieci volte superiore a quel che si produce, non c’è né democrazia, né giustizia, né libertà.

Altro nodo di fondo, la crisi ambientale. Se da un lato si riconosce il tema del "limite", non appare in alcuno dei documenti presentati un approccio diverso da quello trito e ritrito dello sviluppo sostenibile. Nell’assenza di un ripensamento sul concetto stesso di crescita, lo sviluppo sostenibile diviene una parola vuota, piegabile in ogni direzione. Tant’è vero che la stessa scelta del ritorno al nucleare non ha sortito, nei documenti come nell’azione politica, la dovuta opposizione. Ma anche su questo, si sa, nel PD le posizioni sono molto diverse.

Si potrebbe continuare, ma non è certo questo diario la sede per una riflessione politica alla quale peraltro sto lavorando. Quel che proprio non emerge nelle proposte congressuali è il nostro tempo nella sua dimensione "glocale", interdipendente, nel quale si scompongono i tradizionali riferimenti, primo fra tutti quello "nazionale". E così anche il richiamo all’Europa appare alla fine molto rituale. Nel senso che non esce un profilo europeo del PD, né nella proposta programmatica, né tanto meno nel suo funzionamento istituzionale. Manca infatti lo snodo centrale: il federalismo. Perché il progetto politico europeo, o è federalista o non è. E’, quella europea, una proposta "post nazionale" che si fonda sulla progressiva cessione di sovranità verso l’alto (dagli Stati all’Unione) e verso il basso (le Euroregioni) che non coincidono se non casualmente con l’attuale configurazione statuale.

Ma l’Europa è in crisi profonda. Tant’è vero che gli elettori non sono andati nemmeno a votare per il Parlamento europeo, che non c’è ancora una Costituzione europea, che il processo di allargamento è sostanzialmente fermo per il veto di molti paesi, che vecchie istituzioni come il Consiglio d’Europa o il Congresso dei Poteri Locali e Regionali sono alla frutta, ma soprattutto che manca, fra i cittadini come nelle loro rappresentanze politiche, un "pensare europeo". E che al contrario le nostre società si chiudono a riccio a difesa di quel che hanno e che vivono come un privilegio da difendere. Le paure sono ben più prosaiche e meno irrazionali di quel che in genere si pensa.

E’ in questo contesto che ho avvertito come un grande vuoto l’assenza di analisi sulla modernità del fenomeno "Lega", da tutti gli osservatori riconosciuta ormai come il vero soggetto pensante nella coalizione berlusconiana, quello che meglio di ogni altro riesce ad interpretare il presente, "il rancore che diventa progetto politico", il partito che sa dettare l’agenda politica del governo.

Scrivo questi ed altri appunti per il diario, e nel farlo mi chiedo se saprà il PD mettere in campo e valorizzare le energie umane ed intellettuali per diventare un luogo di pensiero, senza il quale l’azione politica continuerà a macinare acqua come è stato nel corso di questi mesi.

Una risposta l’avremo a cominciare dal dibattito congressuale dei prossimi mesi. Certo è che se il buongiorno si vede dal mattino…

 

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