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Non essere complici

Si tratta del patto con cui l’Italia ha concordato con la Libia di “contenere” con ogni mezzo il flusso dei migranti che prendono il mare per raggiungere le nostre coste, e ciò sia impedendone la partenza e trattenendoli nei centri di detenzione libici, sia riconsegnandoli in mare alla Guardia costiera libica sia, quando sono salvati, se non riconosciuti meritevoli di asilo, rispediti ai lager da cui sono fuggiti. Ma “la Libia è un inferno in terra”, ha scritto Mattia Ferrari, un prete che opera con la ONG Mediterranea Saving Humans, il quale ha raccontato del grido di soccorso ricevuto da una folla di migranti che in Libia si erano auto-organizzati dando luogo a un presidio chiamato “Refugees in Libya”, avevano cercato di ottenere una protezione internazionale, avevano ricevuto il conforto della preghiera e della solidarietà invocata per loro dal papa nell’ “Angelus” del 24 ottobre scorso e nella conversazione con Fazio a “Il tempo che fa”, avevano avuto l’aiuto di molti attivisti ed associazioni europee e il sostegno di Carola Rackete (definitivamente prosciolta il 23 dicembre dalla giudice – “il gip” – del tribunale di Agrigento dall’accusa di aver portato a Lampedusa i naufraghi salvati nel Mediterraneo e speronato una nave da guerra italiana (!) per farli sbarcare); e ancora Mattia Ferrari ha raccontato come nel corso delle settimane ci siano state al presidio tre vittime, tre giovani ragazzi uccisi, uno da uomini armati riconducibili alle milizie libiche e due investiti in circostanze misteriose da automobili che in corsa dinnanzi al presidio li hanno travolti. Poi, la notte del 10 gennaio i migranti che vi erano raccolti sono stati catturati dalle forze del Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione illegale del governo libico, i loro accampamenti sono stati distrutti, le persone deportate nella prigione di Ain Zara, restituite alle torture e agli stupri, e quelle sfuggite ricercate dalle milizie e minacciate di morte. “Così è finito il presidio di Refugees in Libya, la prima esperienza di autorganizzazione dal basso delle persone migranti in Libia, il primo caso nella storia in cui le persone migranti si sono rese soggetto e hanno cercato di essere riconosciute come veri fratelli e sorelle” dal resto del mondo, ha scritto Mattia Ferrari; ma anche ultima prova di una tragedia per cui quando i migranti riescono a scappare “vengono catturati e riportati nei lager dagli stessi aguzzini con i finanziamenti di Italia e Malta e spesso su coordinamento di Frontex” (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) mentre l’ENI e i ministri vanno e vengono per fare affari in base al principio “business as usual”.

Queste sono le ragioni dell’appello per la revoca del memorandum che è stato rivolto al governo ma anche all’UNCHR (l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e all’OIM (l’Organizzazione internazionale per i migranti). I rifugiati chiedono il trasferimento in un Paese sicuro, non necessariamente in Europa, ma anche in Africa, e che sia garantita la loro sicurezza; l’UNHCR a Tripoli dice di adoperarsi per la riapertura dei voli di evacuazione verso il Niger e il Ruanda ma che occorre trovare soluzioni per la protezione dei cittadini stranieri all’interno del Paese, attraverso l’interlocuzione con lo stesso governo libico; ma nelle attuali condizioni tale strategia non può considerarsi in alcun modo adeguata quando diverse diramazioni del governo sono attivamente coinvolte nella catena di abusi e sfruttamento delle persone migranti, come hanno spiegato i Rifugiati auto-organizzati nel loro manifesto. Perciò il patto tra Italia e Libia va revocato, e in ogni caso l’Italia dovrebbe pretendere che la Libia sottoponga a controllo internazionale i suoi campi di detenzione dei profughi, per impedirvi torture, stupri e sofferenze inumane.

È facile infatti parlare di dignità: ma per realizzarla ci vogliono scelte di cui evidentemente non siamo capaci. Mentre i buoni propositi, e anche le idee e le risorse ci sarebbero, se lo volessimo, per scongiurare la fine.

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