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Ecco perché dobbiamo immaginare comunità transnazionali e sovra-regionali. Capaci di leggere quel che già sta avvenendo nelle dinamiche dell’offshore, nelle rotte e nei corridoi internazionali, nei loro terminali portuali, oppure nel land grabbing, nella finanza o nella criminalità organizzata.

Questo approccio non è una costruzione astratta, lo stiamo già facendo. Ce l’hanno insegnato le comunità indigene, lo pratichiamo nelle reti come Slow Fish o Slow Grains. La Slow Food degli ecosistemi sarà quella del Mediterraneo, delle Alpi, delle mie Dolomiti, dell’ecosistema danubiano o quello del Po e così via.

Non è una trasformazione semplice, ma dobbiamo avere consapevolezza che il paradigma dello stato-nazione (parole che confondiamo ma che esprimono concetti diversi) ha già fatto fin troppi danni. Si chiamano nazionalismo, sovranismo, “prima noi” che poi è il “si salvi chi può”.

Ora, le strutture organizzative sono tradizionalmente verticali, gerarchiche, autoritarie e centralistiche, nonché a misura maschile. La Slow Food degli ecosistemi è orizzontale, a geografia variabile, organizzata in rete, dove i nodi sono in relazione fra loro e dotati di auto-pensiero.

Gli Statuti tradizionali dei corpi intermedi – figuriamoci quelli che corrispondono alle leggi del terzo settore, sono poco inclini alla fantasia, ma soprattutto sono espressione di un modo di pensare e di essere mutuato dagli Stati. Anche il nostro è un po’ così.

Allora impegniamoci a cambiare. Come abbiamo fatto per le Comunità. Una transizione e una sperimentazione per i prossimi due o tre anni per costruire l’habitat della Slow Food degli ecosistemi.

Come abbiamo scritto nel documento di visione: “Appartenenze plurime a geografia variabile, perché ciascuno di noi è, insieme, tante identità diverse e in divenire”.

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