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Il virus etnico

Sembrano sinceri il presidente Kompatscher e i suoi assessori quando si stupiscono delle resistenze tra famiglie o insegnanti di lingua italiana. Il problema vero però è proprio la loro sorpresa, indice di una pericolosa ignoranza reciproca.

Nel modello della scuola tedesca, particolarmente nelle valli, gli insegnanti hanno un ruolo più ampio della sola didattica, sono figure a disposizione della comunità tant’è, per fare un solo esempio, che ancora oggi accompagnano i bambini in chiesa alla prima comunione. E’ scontato perciò che siano a disposizione per la scuola d’emergenza, o per fare i test sanitari. Non è così nel mondo urbano segmentato, in particolare quello italiano. Che dà invece maggiore attenzione al ruolo pedagogico e didattico dentro la classe, e salvaguarda di più l’autonomia degli istituti scolastici.

Stessa cosa sulla reazione delle famiglie ai tamponcini, dopo la grande enfasi data dall’Azienda sanitaria al fatto di somministrarseli da soli. Del tutto accettabile in contesti dov’è diffusa la cultura dell’automedicazione, e di pratiche associate come la medicina naturale, il parto in casa o simili. La mentalità cittadina di una parte del mondo italiano, invece, l’ha vissuto con allarme perché ha una cultura più medicalizzata, dove diagnosi e cura vanno affidate a personale competente. E’ un tema che tocca la percezione del corpo, non si può derubricare a capriccio, anche se certo c’è poi chi lo ha fomentato per tornaconto politico. Ma l’errore è stato da un lato presentare male una pratica in sé non pericolosa. E dall’altro vincolarla come obbligatoria.

E qui siamo a un aspetto cruciale della diversità: il mondo di lingua italiana ha – possiamo anche dire colpevolmente – un tasso di riconoscimento verso le istituzioni provinciali minore del resto della popolazione, come si ricava dai dati sulla partecipazione al voto o alla vita delle organizzazioni sul territorio. Inoltre frequenta molto più i media nazionali che quelli locali. Non può sorprendere allora che misure importate dall’estero, non presenti nel resto d’Italia, introdotte come obbligatorie e contro il parere degli organi consultivi (Consulta dei genitori, dirigenti scolastici…), possano faticare a trovare attuazione. Se alla fine l’adesione c’è stata, qualcuno dice “è stata estorta”, non trascuri Kompatscher che il malcontento è rimasto. Di più, interventi simili sono destinati ad aumentare il distacco del mondo italiano dalla vita provinciale, anziché colmarlo.

Forse presidente e assessori potevano essere più espliciti e trasparenti. Ammettere che l’obbligo dei test serve a tutelare le scuole di valle, dove ci si confronta con numeri molto superiori di genitori e insegnanti perplessi o contrari all’uso delle mascherine, al distanziamento e alle misure di prevenzione in genere. Non sono leggende, basta farsi un giro sul territorio. Motivi anche comprensibili – gli spazi a disposizione più ampi, le opportunità maggiori di stare all’aria aperta, la diffidenza contadina verso le regole… – ma che differenziano quelle realtà dalle scuole urbane. E che avrebbero potuto suggerire di sfruttare l’autonomia di ciascun Istituto con regole ad hoc.

Ormai però non si torna indietro. Il virus ha fatto il suo ennesimo danno, scavando ancora un po’ il solco tra le comunità della nostra terra. E’ un solco che nasce da quel “più ci dividiamo e più ci comprendiamo” che ha governato per molti anni la politica provinciale. Un terribile errore culturale non ancora sanato, e che il covid-19 rischia di aggravare. Per guarirlo, temo, non basterà una semplice puntura di vaccino.

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