Pensare e agire altrimenti
5 Gennaio 2021Il paesaggio mancante *
12 Gennaio 2021Prendeva forma (almeno nella rappresentazione cinematografica) una stratificazione sociale che si compone dell’emersione dei nuovi ricchi, della cetomedizzazione (direbbe Giuseppe De Rita) dell’Italia e della promessa di accesso all’ascensore sociale anche per i proletari. Vennero poi le destinazioni esotiche (Egitto, India, Maldive) e le grandi città (New York, Amsterdam, Barcellona) dove all’automobile sportiva si sostituivano l’aereo o la nave da crociera. L’avvento delle compagnie aeree low cost allargava lo scenario dall’Italia al mondo intero.
Il turismo si ciba – fino a scoppiare, tanto al mare quanto in montagna o nelle città d’arte – delle possibilità offerte dalla globalizzazione, accettandone le inevitabili dinamiche industriali, estrattive e di massa. Una prospettiva certo attraente nel breve periodo per via di uno sviluppo impetuoso, che sembra non avere limiti e che garantisce profitti che crescono in maniera esponenziale e che sembrano poter ampliare all’infinito anche le filiere dell’indotto. E’ la dinamica finanziaria e speculativa, potenzialmente molto redditizia ma allo stesso tempo rischiosa.
L’overtourism è monocultura e produzione intensiva tanto quanto l’agricoltura del grande latifondo o l’allevamento di animali per la carne o le pellicce. L’overtourism è il frutto avvelenato del Novecento industriale, come l’Ilva a Taranto o il Petrolchimico a Venezia. Cos’è se non industria pesante un modello che arriva a dover produrre la neve – con cannoni capaci di lavorare anche con temperatura oltre gli 0 gradi, di fatto contro natura – per garantirsi la sopravvivenza a quote sempre più incompatibili con il cambiamento climatico o a costruire bacini artificiali per privatizzare l’acqua in un periodo storico sempre più siccitoso?
Enrico Camanni, nell’introduzione a Alpi Ribelli (Editore Laterza), lo esprime meglio di noi:
«[…] un modello suadente, edonistico e smaccatamente cittadino si è posato sulla tradizione contadina costruita sul risparmio e la sobrietà. […] Sedotta, rivoltata e rimpianta. Nelle valli che hanno accolto lo sci e le stazioni della neve, la città si è mangiata quasi tutto il resto. Ha cambiato la montagna con tre parole che non esistevano nel vocabolario alpino: velocità, motorizzazione, cemento. In altri termini: sci, automobili e condomini. […]»
Un modello turistico insostenibile che ha inciso sulla descrizione dei contorni dell’immaginario montano: sia di chi “fa consumo di montagna”, sia di chi la montagna la abita e lavora per quell’indotto turistico che mira a tradurre la narrazione urbana del margine in realtà. Da qui i discorsi sulla montagna e le aree marginali sempre uguali a se stessi, finalizzati all’estrazione delle risorse, figli di un approccio capitalistico multiforme che sembra non essere stato scalfito neppure dalla crisi pandemica. Eppure la “sospensione domestica” a cui la diffusione del virus ci ha costretti sembrava aver ribaltato completamente la percezione degli spazi, dei luoghi e posto le basi per la costruzione di immaginari rinnovati di terre alte e aree interne.
La combinazione di fattori come il distanziamento fisico e la sospensione della mobilità, hanno dato spazio a profonde riflessioni sull’abitare i luoghi urbani e sul ri-abitarne degli altri, per anni relegati ai margini dei dibattiti e delle politiche pubbliche, aumentandone il fascino salvifico e facendole diventare meta e sogno di rifugio per molti e molte. In questa prospettiva, non sembra essere un caso che la montagna sia stata la destinazione preferita per l’estate 2020 perché considerata più sicura rispetto sia al mare che alle grandi città. Importanti flussi turistici gestiti, al di là dei limiti imposti dalle norme di prevenzione del contagio, con le stesse modalità di sempre. E questi stessi flussi sembrano, in qualche modo, legittimare le discussioni delle ultime settimane sugli impianti da sci capaci di semplificare la realtà attorno ad una sola questione: perché non si può trascorrere la vacanza invernale dove si è trascorsa quella estiva?
Il dibattito disordinato a cui stiamo assistendo deve trovare una migliore centratura, chiarendo da un lato che si dovranno aiutare – ristorare si dice – quegli imprenditori e lavoratori che nella crisi Covid subiranno ingenti perdite e contestualmente servirà aprire una transizione (che non si prospetta breve né indolore) che ci permetta di ridefinire l’identità e la prospettiva di quel contesto particolarissimo che sono, in forme diverse, le terre alte da un lato e le aree interne dall’altro.
Per iniziare a tracciare le prime traiettorie di un percorso di cambiamento si dovrà partire dalla ri-considerazione del rapporto sbilanciato tra opposti: centro e periferia, pianura e montagna. Questo è il momento di mettere profondamente in dubbio le vecchie dicotomie per sostituirle ad una riflessione (r)innovativa sul ruolo da attribuire alla montagna al di là di ogni crisi presente e futura, contribuendo alla costruzione di una “immagine aggregata dell’intero Paese”, obiettivo del Manifesto per Riabitare l’Italia, ultima pubblicazione dell’omonima associazione.
Indietro non si torna, non si deve tornare.
Dobbiamo avere nostalgia del futuro, decidendo di immaginarlo e costruirlo collettivamente così come qualche mese prima dello scoppio della pandemia proponeva il “Manifesto di Camaldoli”. Si tratta di uno scritto a tantissime mani (e menti) che pretende di invertire le posizioni in campo, dove «proprio la montagna marginale può diventare il laboratorio sperimentale di una nuova civilizzazione, capace col tempo di contaminare la vecchia centralità urbana in termini di cultura del limite, della solidarietà, del senso civico comunitario.»
L’Italia si salva dalla cima, ipotizza l’ambientalista Luigi Casanova in un libro – edito da Altroconsumo – di recente pubblicazione.
La cura del bene comune (l’acqua, l’aria, il suolo, la biodiversità), ad esempio, è allo stesso tempo ipotesi di gestione responsabile e mutualistica di risorse scarse e condizione necessaria per un cambio di paradigma nel verso di un’ecologia integrale, capace nello stesso tempo di affrontare crisi ambientale, sociale ed economica.
Paolo Cognetti, scrittore e abitante della montagna, così si esprime: «Economia non vuol dire diventare ricchi, vuol dire riuscire a vivere dove vogliamo vivere». E’ un richiamo forte a riflettere sui lavori della montagna, votati alla produttività e all’artigianalità e non alla rendita, e sulla necessità di restituire tempi dilatati – quelli del risiedere, del con-vivere e del curare – ai contesti montani e alle loro esperienze di sviluppo.
Un esempio pratico di questa necessaria inversione di punto di vista? Sarebbe interessante per Trento città alpina farsi contaminare dalle montagne che la circondano – il Bondone in primis – e non immaginare, per l’ennesima volta, di muoversi dalle esigenze e dagli schemi urbani per trasportarli in quota, con o senza funivia. Da qui si può ripartire. Come alpinisti di fronte a una nuova ed esposta via da aprire.
* Giulia Cutello è Ricercatrice, Eurac Research – Federico Zappini è libraio e consigliere circoscrizionale del Comune di Trento