Stato di eccezione
12 Marzo 2020Andrà tutto bene, se…
15 Marzo 2020Il documento pubblicato pochi giorni fa (il 6 marzo) dalla Società degli anestesisti e rianimatori (SIAARTI) col titolo di per sé inquietante, Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, è da questo punto di vista esemplare. I medici impegnati in prima linea ci dicono, in poche parole, che “può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva”. In presenza di un afflusso superiore alle possibilità di ricovero la selezione tra chi salvare e chi no avverrà con criteri anagrafici e biologici, anziché in base al puro (e casuale) ordine di arrivo (“first come, first served”). “Non si tratta di compiere scelte meramente di valore – precisano – ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”. Lo mettono nero su bianco per venire in soccorso alla disperazione etica di chi, sul terreno, è chiamato a scegliere tra “sommersi e salvati”. Per non farlo sentire solo di fronte a una responsabilità “dis-umana”. E lo fanno evocando l’”etica delle catastrofi” e, appunto, principii da stato d’eccezione, consapevoli degli scenari d’altri tempi che quel pensato fino a ieri impensabile può evocare (per la mia generazione è inevitabile rivedere sullo sfondo del nostro triage la rampa di Auschwitz dove avveniva appunto l’erste Auswahl, l’orrenda “prima selezione” in base alle condizioni fisiche e anagrafiche dei nuovi arrivati per “decidere” se mandarli ai forni o al lavoro).
Per tutte queste ragioni quello resta un documento umanissimo e disumano insieme. Agghiacciante (per le sue implicazioni ultime) e comprensibile, per le sue ragioni immediate. Per la terribile “forza delle cose” che lo muove. E’ l’applicazione di un’impietosa “razionalità strumentale” (quella che impone di massimizzare i risultati con le risorse disponibili) a una realtà che riduce la pietà a un lusso che non ci si può (più) permettere. Merita – voglio sottolinearlo – il massimo rispetto, per le caratteristiche di chi l’ha redatto e di coloro cui è diretto: le persone che per professione operano in prima linea, quotidianamente, con rischio, sul fronte estremo della vita e della morte. Su di loro ogni giudizio critico sarebbe ingiusto. Se un’osservazione mi permetterei di fare, invece, non è tanto su quanto il documento dice, ma su quanto non dice. In esso lo “squilibrio tra necessità e risorse disponibili” è dato come un presupposto di fatto. Una sorta di dato di natura, come il virus in fondo. Così però non è.
Se i posti in rianimazione sono scarsi, è perché qualcuno (decisori pubblici, politici di governo, poteri economici nazionali e internazionali, opinion leaders, operatori dell’informazione) ha deciso così per anni. Se in Italia ne abbiamo 5.000 di contro ai 28.000 della Germania e agli oltre 20.000 della Francia, è in conseguenza di scelte: quelle che hanno portato in dieci anni a negare 37 miliardi dovuti alla Sanità e a tagliare 70.000 posti letto chiudendo quasi 800 reparti (si veda l’utile documentazione di Rosa Rinaldi dal sito di Transform). Se i nostri rianimatori sono costretti ad affrontare “dilemmi mortali” è perché altri, sopra di loro, o intorno a loro, hanno determinato la scarsità che obbliga e rende feroce la selezione. Questo dovrebbe concludere un’osservazione razionale che si sollevasse al di sopra del campo “professionale” e giudicasse con uno sguardo “generale” o, appunto, “generalmente umano”.
In questa luce anche il virus probabilmente si “umanizzerebbe”. Non nel senso di diventare meno feroce. Ma di rivelare quella specifica ferocia tipica di noi “ultimi uomini”. Di offrire davvero, come aveva intuito Susan Sontag, la malattia come metafora di una condizione umana e sociale. In fondo, la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza, non è la stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i “vecchi”, in primis) e meritevoli i vincenti (i “forti”)? L’isolamento cui ci obbliga, la rottura dei legami che impone come autodifesa, non è il programma thatcheriano della cancellazione della società in nome dell’individualismo estremo fatto codice genetico? “Tenere gli altri a distanza è l’ultima speranza”, sintetizza Elias Canetti nel folgorante capitolo intitolato appunto “Epidemie” del suo Massa e potere: non è quello che filosofi analitici nozickiani e professori di economia dell’impresa bocconiani ci hanno dispensato in tutti questi anni come regola aurea? Lo stesso crollo dei mercati finanziari sotto l’urto del morbo e della paura, non è il segno di quella fragilità strutturale del “finanz-capitalismo” (per usare il termine di Luciano Gallino) a suo tempo denunciata dai pochi “gufi”? In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il microscopico luogo geometrico in cui precipitano in un punto solo (e si rivelano) tutte le linee di crisi del nostro tempo. Nel contesto “morboso” dell’epidemia è come se si condensasse l’ombra che si nascondeva, in sospensione, sotto la superficie della normalità.
In fondo, di questa “capacità rivelativa delle catastrofi”, chiamiamola così, aveva un po’ da sempre parlato chiaro, e meglio, la letteratura più che la saggistica. Mi è venuto in mente, in questi giorni, il Bertold Brecht allegorico e sferzante di Ascesa e caduta di Mahagonny. Mahagonny, la città del vizio e degli affari. La città del denaro “dove tutto è in vendita” e “non c’è nulla che non si possa comprare”, nata per dare ristoro e risarcimento alle fatiche dei cercatori d’oro con l’amore a pagamento e il gioco d’azzardo, che al momento della sua caduta – per un ciclone, un uragano, un terremoto o in incendio, non importa, comunque una “catastrofe” – rivela, come un corpo sventrato da cui fuoriescano le viscere, la propria intima natura nell’intrico di cortei che s’intrecciano nella sua piazza e nei cartelli che levano: «per la libertà dei ricchi» – «per il coraggio contro gli inermi» -«per l’onore degli assassini» – «per la maestà dell’immondizia» – «per lo schifo imperituro» – «perché duri l’età dell’oro». La cantano anche, la loro verità, i fondatori della città giunta ora alla sua fine: “Non ci serve un uragano/non ci serve un ciclone/ i disastri che può provocare/ noi stessi li sappiamo fare”. Per concludere infine, in crescendo con l’ultima, feroce confessione recitata “da tutti i cortei”, in coro: “Né a noi né a voi né a nessuno possiamo dare aiuto”.
Brecht compose quell’Opera nel crepuscolo di Weimar, quando già la Repubblica democratica nata dal sacrificio non rituale degli spartachisti massacrati dai Freikorps di Noske rivelava tutti quei vizi che poco più tardi sarebbero sfociati nell’orrendo contagio della peste nera hitleriana. Lo fece convinto che il “dolce cantare” potesse assumere “sempre più il carattere di insegnamento a spese di quello gastronomico” (termine con cui intendeva l’effetto di divertimento dell’opera artistica). Ma la sua Mahagonny non è, in realtà, molto diversa dalla Orano di Camus, colta alla vigilia della peste, anch’essa disseccata nell’anima prima che il morbo la colpisse nei corpi. Una città, si potrebbe dire, già perduta, “il cui aspetto, la cui animazione e i cui piaceri stessi parevano dettati dalle esigenze degli affari”, nella quale “un malato si sente davvero solo”. “Si pensi allora – annota l’autore – a chi sta per morire, intrappolato fra centinaia di muri crepitanti di calore, mentre nello stesso momento, al telefono o nei caffè, un’intera popolazione parla di cambiali, di polizze di carico e di sconti. Si capirà quel che può esservi di scomodo nella morte, anche moderna, quando sopraggiunge in un luogo secco”… C’è comunque, nelle città colpite, una sorta di messaggio neppur troppo segreto, che parla di mali, di processi, di colpe e carenze – di “svuotamenti” – più vasti, e generali, del semplice spazio conchiuso del disastro visibile. E sarebbe colpa grave non ascoltarlo.
Tutto questo finirà, prima o poi. E può darsi persino che il virus oggi in azione si riveli meno feroce di quanto appaia, limitando il suo prezzo in vite e sofferenze umane, persino più “amichevole” nel lanciarci il suo messaggio di allarme in forma, come dire?, ancora “attenuata” mostrandoci solo una parte, limitata, della sua potenza mortale. Quello che un credente potrebbe considerare un “segno dal cielo”. O un ultimo avviso. Come che sia, per un laico, sarebbe comunque un crimine non coglierlo, quel segnale minaccioso. Per correggerci, finché si è in tempo. Quando tutto questo sarà finito, dovremo ben ripensare l’intero nostro universo di senso, a cominciare dall’insostenibilità del dispositivo egemonico che sembrava fino a ieri immortale. Dalla fallacia miseranda dei suoi dogmi: il primato del fare sul pensare; del privato sul pubblico; dell’economico sul sociale anzi su tutto il resto; del consumare sul conservare; del prevalere sul condividere; la forza della competitività contro la cooperazione… Una “visione del mondo”, da rovesciare. E per farlo servirà anche a noi un cambiamento, radicale, di sguardo, linguaggio, categorie e progetto.