Il rischio di vivere al passato
4 Gennaio 2020Sono venuto a prenderti alla stazione…
21 Gennaio 2020L’attacco americano è a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra. La motivazione addotta dal Pentagono per giustificare l’azione (“Soleimani stava progettando attacchi contro diplomatici e militari americani in Iraq e in tutta la regione”) è risibile. La storia dell’ormai lunga crisi di rapporti tra gli Usa di Trump e l’Iran dimostra che quella era proprio l’unica cosa che Suleimani, che tutto era tranne che uno stupido, non avrebbe mai fatto. Né ha senso l’idea che l’attacco dei droni americani sia la risposta alla furiosa protesta che gruppi di iracheni sciiti (di certo manovrati dall’altra vittima illustre del raid, Abu Mahdi al Muhandis, numero due delle milizie irachene filo-iraniane, un corpo paramilitare affiliato all’esercito) avevano portato qualche giorno prima contro l’ambasciata americana di Baghdad. Non dichiari una guerra perché ti hanno sporcato i muri.
Ma gli Usa si sentono forti in Medio Oriente. Secondo i dati più recenti, mantengono quasi 60 mila soldati nella regione e hanno installazioni militari in quattordici Paesi di Medio Oriente e Nord Africa: Egitto, Israele, Libano, Siria, Turchia, Giordania, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrain. Nel solo 2019, e proprio in seguito alle tensioni con l’Iran, Trump ha inviato altri 2.500 soldati nella sola Arabia Saudita. E ancora più forti si sentono, gli Usa, da quando sono riusciti a saldare l’alleanza tra Arabia Saudita e Israele, i Paesi che più fortemente temono l’estendersi dell’influenza iraniana. È certo, tra l’altro, che le informazioni decisive sugli spostamenti di Suleimani siano venute dai loro servizi segreti, da lungo tempo ottimamente infiltrati in Iraq.
Trump ha ereditato da Barack Obama il coinvolgimento nella crisi siriana e la relativa sconfitta della triangolazione americo-saudo-israeliana, determinata ad abbattere Bashar al-Assad per spezzare la catena del potere sciita che lega tra loro Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen, e tutti insieme alla Russia. Vuole la rivincita e punta all’Iran, sapendo che il Cremlino, sceso direttamente in campo per Assad, non farebbe altrettanto per gli ayatollah.
Ma soprattutto Trump usa la politica mediorientale (e in genere la politica estera) per fini di politica interna. Punta alla rielezione. E sa che il suo elettorato, in primo luogo quello repubblicano ma non solo (pensiamo, per esempio, ai gruppi di influenza filo-israeliani), ama l’America dura, che si fa rispettare armi in pugno. Eliminare un generale iraniano è un ottimo sistema per trasformare il tentativo di impeachment in un atto antipatriottico. E se per caso gli iraniani dovessero reagire, ecco una scusa perfetta per trasformare la campagna elettorale in un referendum tra chi vuole difendere l’America (lui, ovviamente) e chi vuole invece arrendersi. Non a caso i democratici, che in passato non si sono mai negati guerre e guerricciole, ora contestano il suo operato anti-Iran. E se pensiamo che c’è ancora un anno prima delle presidenziali Usa, e che pare impossibile che l’Iran non cerchi una rivalsa, dobbiamo prepararci ad altri momenti drammatici.
Anche Recep Tayyep Erdogan sta usando l’estero per soffocare i problemi interni. L’economia della Turchia è da tempo in bilico (nonostante una parziale ripresa nella seconda metà del 2019, il reddito pro capite, il Prodotto interno lordo e la produzione industriale sono da tempo in calo) e lo scontento è palpabile. Già l’offensiva militare nel Nord della Siria contro i curdi rispondeva, almeno in parte, all’esigenza di alzare una bandiera populista per placare gli istinti profondi del Paese. Quella spedizione, però, ha aperto un’altra questione: che fare dei miliziani islamisti, in gran parte affiliati ad Al Nusra (l’ex Al Qaeda), che la Turchia ha armato e finanziato per anni e che occupano la provincia siriana di Idlib? Al Nusra ha sedi, militanti e conti correnti in Turchia. Erdogan è a un bivio: abbandonare i vendicativi miliziani alle bombe dei russi e dei siriani, e così dover quasi sicuramente affrontare un’ondata di attentati in patria? Oppure tradire i patti siglati con Vladimir Putin (la “pulizia” di Idlib in cambio del via libera all’avanzata anti-curda), sponda che gli è indispensabile per tenere a bada gli Usa?
Per sua fortuna c’è la Libia. Il governo di Fayez al-Sarraj, l’unico riconosciuto ufficialmente dalle Nazioni Unite, è in crisi profonda. Il generale Khalifa Haftar, con le armi della Francia, i droni degli Emirati Arabi Uniti, i quattrini dell’Arabia Saudita, l’aviazione dell’Egitto e i mercenari della Russia, è arrivato ormai a controllare gran parte del Paese e stringe d’assedio Tripoli. Al-Sarraj ha chiesto aiuto un po’ a tutti e la cosiddetta “comunità internazionale”, dalla Ue alla stessa Onu, non ha prodotto altro che chiacchiere. Come se le belle parole servissero a qualcosa contro le bombe e i carri armati. Più seriamente gli ha risposto appunto Erdogan, che così prende tre piccioni con una fava. Da un lato interviene in una crisi sulla sponda Sud del Mediterraneo, conquistando un ruolo di grande rilievo geopolitico. Dall’altro si libera di un bel po’ dei militanti di Al Nusra. Perché il bello è questo: a combattere per Al-Sarraj, cioè per il governo timbrato Nazioni Unite, andranno i tagliagole di Idlib, quelli che qualche settimana fa destavano lo sdegno del mondo per le violenze contro i civili curdi. E infine allunga le mani sulle risorse energetiche della Libia: Al-Sarraj ha già firmato con lui un accordo che investe i preziosi giacimenti di gas e petrolio del Mediterraneo.
Ora tutti, dalle grandi istituzioni come la Ue ai Paesi come Francia e Italia, chiedono alla Turchia di lasciar perdere, alla Russia di smetterla, a questo e a quell’altro di fare il bravo. Al-Sarraj ha già risposto: dove eravate quando vi chiedevo aiuto?
* da www.famigliacristiana.it