«Sicurezza». Il programma delle nuove presentazioni
21 Maggio 2019«Sicurezza», spazi di pensiero nella solitudine della politica
25 Maggio 2019La stessa moneta unica, al di là delle disparità economiche e finanziarie fra i diversi paesi coinvolti, oltre al valore simbolico rappresentava qualcosa di più, l’apertura di una dialettica plurale in un mercato globale dominato dal dollaro statunitense. Tanto da indurre qualche analista a ritenere che la prima guerra del Golfo intendesse bloccare sul nascere l’esodo dalla divisa nordamericana nel commercio del petrolio da parte dei paesi dell’Opec.
Nell’attraversare liberamente quei luoghi un tempo segnati dal filo spinato e da bandiere contrapposte, si apriva un nuovo possibile orizzonte. Pieno di contraddizioni, certo, perché allo sfarinarsi dei confini interni, quelli esterni dell’Unione diventavano per una moltitudine crescente di persone in fuga da guerre, discriminazioni razziali e povertà, ancora più odiosi e dolorosi. E perché l’aprirsi di uno spazio politico, economico e sociale tanto rilevante rappresentava un pericolo per altri disegni egemonici che per un verso guardavano con sospetto ad un’Europa autonoma e capace di propria iniziativa geopolitica, per un altro erano interessati alla deregolazione di una vasta area nel cuore dell’Europa.
Malgrado tutto questo, dopo due secoli nei quali il paradigma dello stato-nazione aveva drammaticamente imposto i suoi deliri, finalmente sembrava aprirsi un tempo nuovo nel quale la dimensione nazionale avrebbe potuto abbassarsi ad un riferimento culturale a fronte di uno stato di diritto di una cittadinanza europea che prescindeva da ogni appartenenza. Una prospettiva che avrebbe coinvolto dunque anche altri scenari, le relazioni con l’“altra Europa”, il vicino oriente, l’area mediterranea, lo stesso continente africano a sua volta alle prese con la rinascita di un disegno politico unitario.
La guerra del Golfo, quella nella regione dei Grandi Laghi e la guerra dei dieci anni nei Balcani rappresentarono altrettanti fuochi di sbarramento, intrapresi o utilizzati per ostacolare un inedito scenario dopo la fine di una storia che aveva come simbolo quel muro che aveva diviso il mondo per mezzo secolo.
In Europa cambiarono le geografie. Si sfarinano paesi come la Jugoslavia, la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica. Ne nacquero ventidue di nuovi2. Per molti di questi la prospettiva era quella di diventare moderni stati offshore.
Ci rendemmo ben presto conto che il nuovo contesto dopo la fine della guerra fredda non avrebbe aperto gli scenari auspicati. La normalità delle nuove guerre, il carattere omologante ed impoverente della globalizzazione dei mercati, la crescente insostenibilità di un modello di sviluppo fondato sul mito della crescita senza limite e il manifestarsi ormai evidente dei cambiamenti climatici, misero in moto milioni di persone alla ricerca di un futuro che corrispondesse all’immaginario culturale della ricchezza come possesso di cose e corsa ai consumi. Il vento si mise a soffiare in direzione contraria, fra paure e derive securitarie, nazionalismi e nuovi fascismi. Facendo riaffiorare storie dimenticate, oppure aggiungendo nuovi capitoli al delirio degli stati/nazione. Il racconto inizia qui. Fra Port Bou e Ilok.
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Che cosa hanno in comune Port Bou e Ilok? Posti di confine come tanti, insignificanti nella loro banalità ossessiva, affascinanti per come il tempo li ha cesellati e consegnato loro messaggi cruciali anche se in larga misura inascoltati.
Port Bou, dove il tempo si è fermato
Port Bou è forse la propaggine più meridionale dei Pirenei che lì incontra il Mediterraneo. Fino agli anni ’20 del secolo scorso era un villaggio di pescatori, successivamente un luogo di passaggio fra Francia e Spagna quando ancora le autostrade non c’erano e quando gli uomini e le merci (più le merci degli esseri umani, a ragion del vero) si muovevano sulle strade ferrate. Un importante scalo ferroviario e per questo venne pesantemente bombardato negli anni della guerra di Spagna. Oggi pressoché in disuso, occupa ancora una grande superficie a monte dell’abitato, al pari di un’area industriale dismessa.
Scendendo sul mare le colline segnano un confine fra due paesi così diversi, la Francia sonnacchiosa nella sua “malinconica opacità” che si accomodò nel regime di Vichy e che indusse René Char a quell’espressione così sferzante: «la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento»3; la Spagna che ancora oggi non sembra aver fatto i conti con il fascismo oltre il nazifascismo, in quel lungo secondo dopoguerra di un regime come quello franchista capace di sopravvivere alla sua cultura mortifera fino alla metà degli anni ’70, senza che questo destasse particolare indignazione nei consessi internazionali come d’altra parte in una società ancora oggi spaccata a metà e che forse anche per questo si rivela incapace di trovare una soluzione alla questione catalana.
A Port Bou ci si potrebbe ambientare un film sul Novecento, tanto il tempo sembra essersi fermato. E’ la prima volta che ci metto piede, eppure nella locanda che dà sul piccolo golfo avverto una certa familiarità, fatta di odori e di finta pelle, verso quell’essere stati moderni fra feste di matrimonio, incontri occasionali e vacanze racchiuse in cartoline ingiallite.
Non sono qui per caso. In questo tratto di terra e di mare, passato e presente si rincorrono. Qui nel 1941 si concluse il tragitto terreno di Walter Banjamin, fra i pensatori più acuti ed originali del Novecento. In fuga dalle persecuzioni razziali, quando queste – nel villaggio meno globale di allora – si svolgevano all’interno dell’Europa e il delirio nazionalista non contemplava l’ipocrita distinzione fra migranti economici e non. Quelle persecuzioni erano la legalità, in Germania (paese natale di Benjamin) come in Italia e in buona parte d’Europa, chi la violava rischiava di finire nei campi. Se poi erano le proprie idee a dare fastidio anche la “razza” non contava più niente, la sorte dei traditori segnata e la solitudine ancora più devastante. Apolidi nel corpo e nel pensiero.
Benjamin cercava una nave che gli potesse dare un approdo, trovò altre divise che gli sbarrarono il passo. Cercò di mettere in salvo il suo ultimo manoscritto4 e quell’orologio che si ostinava a guardare5 in quell’ultima sera a Port Bou. Poi decise di porre fine al suo cammino, liberandosi del suo corpo malandato affinché il pensiero volasse in libertà. Di macerie e di fuggire ne aveva abbastanza.
Non so se quel giorno di fine settembre in cui Walter Benjamin si suicidò il cielo fosse coperto di nubi cariche di pioggia e il mare mosso come in questo mattino. Nel promontorio che si affaccia sul Mediterraneo le onde s’infrangono fin sul cristallo posto in fondo ad una scalinata. Un memoriale può essere anche così, un manufatto di ferro che naturalmente prende il colore della ruggine, una scalinata che scende verso il mare ed un cristallo che ci parlano della finitezza di ogni umana esistenza e del desiderio di pace di fronte all’incedere dell’infinito. Non amo i monumenti e il carico di retorica che si portano appresso. Ma ci sono delle eccezioni, come il fiore di Jasenovac6 ad esempio, o questo memoriale destinato prima o poi ad essere inghiottito dal mare, come avviene per un’opera della Land Art o per un antico vascello dopo il naufragio. O come le spoglie di Benjamin, riesumate dopo cinque anni perché per quella tomba nessuno pagava l’affitto e disperse chissà dove.
Come non so se il posto di frontiera a Port Bou sia oggi lo stesso di allora. Malgrado la professionalità degli agenti, quelle armi spianate incutono inquietudine, ancor di più se sei “un cittadino del nulla” di origine afghana e con una nuova cittadinanza di cui avresti volentieri fatto a meno che tarda ad arrivare.
Osservo Razi nello specchio retrovisore, avverto il suo disagio. Arrivare a Port Bou è stato per lui come un dono caduto da chissà dove. Aveva deciso da tempo di dedicare l’ultima parte della sua autobiografia a Walter Benjamin, moderna figura di apolide nel secolo del progresso e degli assassini. Tanto che a Razi e Soheila non era sembrato vero che questo nostro viaggio diretto a Barcellona sulle tracce di un federalismo europeo senza più quasi cittadinanza passasse proprio di qui, per rendere omaggio ad un uomo e al suo fervido pensiero che ancora aiuta a connetterci col nostro tempo.
Abbiamo percorso insieme quei gradini verso il mare, come a segnare tacitamente la nostra amicizia. Esistenze, le nostre, così differenti e lontane… ma in questo luogo della memoria deserto e probabilmente dimenticato avverto una profonda sintonia. Quanta emozione essere qui.
E come è duro questo silenzio di fronte a divise sempre uguali, nell’ordinario squallore di un posto di confine interno all’Unione Europea che si sarebbe dovuto cancellare. Il suo sciogliersi di fronte ad un casuale lasciapassare non ci rasserena.
Ilok, confine del nulla
Lo stesso effetto mortificante che leggerò negli occhi di Razi qualche mese più tardi ad un nuovo confine europeo quando, di fronte ad un timbro di entrata mancante per una negligenza della polizia di frontiera, ci chiesero da dove venisse quell’uomo dai tratti orientali.
Ilok è una piccola cittadina di confine fra Serbia e Croazia, in quella Slavonia nota per le sue foreste di rovere, molto meno per i segni che la storia ha lasciato sul suo volto.
A due passi da qui si consumò una delle pagine più controverse della resistenza al nazifascismo verso la fine della seconda guerra mondiale, in quello Sremski front considerato dalla storiografia ufficiale jugoslava come l’eroica battaglia contro le armate tedesche, ma che altri ritengono sia stato l’inutile sacrificio della gioventù intellettuale di Belgrado mandata al massacro ad inseguire i carri armati tedeschi già in fuga, sapendo che essa, dopo la Resistenza, avrebbe potuto rivoltarsi contro Tito, proprio in nome della Resistenza.
E sempre a due passi da qui, mezzo secolo più tardi, la tragedia di Vukovar, città martirizzata dal convergere di nazionalismi accomunati nell’intento di eliminare la natura cosmopolita, aperta e plurinazionale di quella città. Come del resto sarebbe avvenuto in seguito per la città di Sarajevo, tenuta sotto scacco per quasi quattro anni nell’intento di piegarne la natura, quella storia che ci raccontava di come si era andata costruendo l’Europa nell’incontro fra oriente e occidente.
Ma per quei criminali che esibivano armi automatiche, bandane ed antiche vestigia riconducibili ad improbabili focolari identitari, laddove il confine non c’era più occorreva ristabilirlo. E non si può certo dire che non ci siano riusciti. Lucida follia che si concretizzò in diverse ondate di pulizia etnica e, successivamente, negli accordi di Dayton che ne segnarono la legittimazione.
In Slavonia ci pensò l’operazione Oluja7 – operazione condotta dall’esercito croato con il sostegno logistico della Nato nell’agosto del ’95 – a desertificare un territorio da secoli abitato da serbi e croati. In quella circostanza, il deputato fiumano Vladimir Bebić ebbe a dire «La cosiddetta liberazione della Krajina, la cui popolazione è fuggita davanti ai liberatori, è il risultato non della superiorità dell’esercito croato, che non ha incontrato praticamente nessuna resistenza, ma di un accordo tra Zagabria e Belgrado, il cui finale si avrà in Bosnia con la spartizione di quel paese. Lo scenario del cosiddetto esodo umanitario delle popolazioni fu scritto molto tempo addietro da Tudjman e Milosević e su di loro ricadono le conseguenze di questo crimine di guerra»8.
Il borgo agricolo di Ilok divenne così posto di confine di due nuovi stati-nazione e più tardi – con l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea – dell’Europa fortezza. Confine minore, certo, ma che ancora oggi – di fronte all’arenarsi dell’allargamento – separa un’Europa dall’altra.
I segni dei passaggi dei carri armati o delle interminabili code di profughi che si lasciavano dietro una scia di masserizie ormai diventate un inutile peso si sono perse. Rimangono le bandiere e i cippi della guerra patriottica.
Oggi lo scenario è un confine. Da una parte moderni vigneti, dall’altra ciò che rimane del granaio e dello zucchero della vecchia Jugoslavia. Da entrambe le parti l’ipocrisia della legalità che ci ha efficacemente descritto Drago Hedl9 nel suo noir “Silenzio elettorale”10 e la criminalità organizzata che ha indossato gli abiti di un business fatto di assenza di regole, traffici ed affari. A questo del resto è servita la “guerra patriottica” degli anni ’90. Si dice che nella guerra non ci sono vincitori, ma anche questa è retorica vecchia e stantia. No, hanno vinto loro, i signori della guerra, a prescindere dalle loro bandiere.
Quando vidi Vukovar e le altre cittadine della Slavonia nell’immediato dopoguerra (ricordo in particolare l’impatto che ebbe su di me l’abitato di Pakrac) erano drammaticamente segnate dai colpi delle granate, delle mitragliatrici pesanti e dai kalashnikov. La terra desolata, le case bruciate.
Oggi a Vukovar, se non fosse per quell’albero incenerito che ancora sorge fra il Museo civico e il Danubio, quasi non ti accorgeresti che quella fu la città martire «che sapeva di morte»11. La città dell’inganno etnico, serbi contro serbi, croati contro croati, dei signori della guerra contro chi avrebbe potuto rappresentare una classe dirigente alternativa, le città e il loro cosmopolitismo.
Con il paradosso di un albergo oggi in rovina che dominava l’ingresso della piccola Vuka nel Danubio. L’hotel Dunav resistette alla guerra – i segni dei colpi si potevano vedere oltre che sulle facciate anche sulle porte interne delle camere – ed anche all’immediato dopoguerra, tanto da ospitarci tutti quando sbarcammo lì a due passi nel porto di Vukovar con il battello Györ che da Vienna lungo il corso del Danubio ci portava a Belgrado12.
Fu la prima imbarcazione civile a percorrerlo quel tratto del grande fiume europeo, fra ponti abbattuti e nuovi confini che già allora avrebbero potuto far presagire la fine di un sogno che cercavamo di tenere vivo. Fu un approdo difficile, e non certo per l’inabilità del comandante. Si era diffusa l’informazione di un’imbarcazione con un carico umano di persone che provenivano da quindici paesi diversi e di una piccola orchestra13 che non intendeva riconoscere la pulizia culturale seguita a quella etnica. E così quell’approdo divenne un esercizio di diplomazia nonviolenta, tanto che dopo qualche minuto di imbarazzo la forza della musica e delle sue contaminazioni riuscì a scardinare ogni sorta di divieto. Quella notte nei saloni dell’hotel Dunav gli ottoni tornarono a suonare insieme alle gusle.
Ma nulla poté quel grande albergo di un’epoca finita di fronte al nuovo tempo degli Horvatić14, delle automobili coi vetri abbrunati, degli arricchiti nella guerra divenuti businessman. Che guardavano alla sua rovina (che dura ormai da un decennio) come condizione per renderne profittevole l’acquisto. E che infatti è avvenuto qualche mese fa da parte di una società svizzera (ma attenzione, con amministratori croati) per 11 milioni e trecentomila kune (l’equivalente di circa un milione e mezzo di euro per un manufatto di 8 piani che, a quanto scrivono le cronache locali, potrebbe lasciare il posto ad un palazzo di 36 piani, il più alto di tutta la Croazia). Cronache della postmodernità.
Anche intorno a questo albergo transennato quel che colpisce non sono i segni degli anni ’90, ma il silenzio. Il silenzio che ci accompagnerà lungo i centri rurali della Slavonia, perché i moderni dopoguerra sono così. Si sventolano le bandiere della patria riconquistata di cui si celebrano i rituali, ma manca un’idea di futuro che non sia quella del business, manca un fervore collettivo e mancano i saperi. Apparentemente sembra tutto in ordine, ma le case sono vuote e il cartello za prodajem15 campeggia ovunque. Chi perché ha provato a rientrare ma si è trovato in un paese ostile e ha deciso che quella non era più la sua terra, altri perché quel silenzio è diventato assordante. Rimangono i vecchi. Per qualche anno si ritornerà d’estate a far loro visita, fin quando non ci sarà più nemmeno questo motivo.
Al posto di frontiera di Ilok la carta d’identità italiana di quell’uomo dai tratti orientali non è sufficiente. E se all’entrata in Serbia è passato inosservato, ora per i funzionari di quello stesso paese è un clandestino. E noi suoi complici. L’attesa alla frontiera è snervante, provano a telefonare in Italia ma quello è un giorno festivo e non trovano nessuno che comprovi che quel signore vive in Italia da dieci anni, è un noto regista conosciuto alle istituzioni per la sua attività professionale, ha avuto lo status di asilo politico ed è in attesa di ricevere la cittadinanza italiana. Cerchiamo di alleggerire la tensione con Razi, ma il sorriso che gli strappiamo è amaro.
Un cane passa di lì, libero e indisturbato. Chissà che cosa penserà degli uomini e di quelle lunghe file per oltrepassare un luogo come un altro. Il consulto fra gli agenti si fa esasperante, nessuno a quanto pare vuole prendersi la responsabilità. Poi Soheila esce come una furia dal container adibito a posto di polizia ma con in mano i documenti di tutti e ci dice a mezza voce di salire sul pulmino e ripartire. E’ quel che facciamo, senza il coraggio di chiederle nulla.
Quelle due ore trascorse in un luogo di aperta campagna a fare i conti con la legalità degli uomini vale per ognuno di noi quanto un momento formativo. Cerchiamo di stemperare la tensione e rompere il silenzio almeno fra noi, tanto inquieta quello dei borghi della Slavonia che attraversiamo. Non si vede in giro anima viva e così nella mia memoria si affollano immagini di altri viaggi, fors’anche di altri racconti.
Di certo c’è che prima della guerra la città di Vukovar contava quasi cinquantamila abitanti. Oggi, sulla carta, sono poco più della metà. Anche questo è l’esito delle guerre patriottiche.
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E’ paradossale che nel tempo dell’interdipendenza, dove ogni persona è connessa col mondo, i nazionalismi ritornino ad essere l’orizzonte voluto. Eppure sembra proprio che l’esito della globalizzazione, di fronte all’aumento delle diseguaglianze e ad una crescente omologazione dei comportamenti e dei desideri, produca un bisogno di chiusura rispetto a quel che si è e a quel che si ha. Identità in sottrazione, diritto diseguale.
In realtà è proprio la storia delle frontiere, nella loro continua ibridazione, ad indicare come l’idea stessa di purezza produca una sorta di necrosi culturale. Ogni identità che possa dirsi viva è in essenza un sincretismo che si è andato plasmando nel tempo e in divenire.
Penso a come le parole di ogni vocabolario altro non siano che l’esito dell’incontro. Nelle mie terre alpine ancor oggi è motivo di orgoglio la distillazione della grappa per l’autoconsumo e il come ci si prenda cura del proprio alambicco: dall’arabo al-inbq.
Ben più interessata e prosaica è la difesa della condizione di privilegio che la storia moderna ha riservato all’occidente, motivo per il quale non si intende rinunciare al proprio stile di vita, rivendicando una sorta di diritto naturale in ragione della propria civiltà. E’ stata questa, del resto, la traduzione dello jus communicationis16 con il quale vennero giustificati sul piano del nascente diritto internazionale la conquista delle Americhe ed il genocidio delle popolazioni native.
In fondo non molto diverso dal principio rilanciato a partire dagli anni ’90 secondo il quale “il nostro modello di vita non è negoziabile”. L’“umanesimo narciso e povero di mondo”17, che per anni ha chiamato umanità il venti per cento dell’umanità, getta la maschera. E scopre la sua ipocrisia, tingendosi di “sovranismo” e di “suprematismo”.
“Prima noi” è la sua traduzione politica: prima gli italiani, american first, Deutschland über alles… non fa differenza, il richiamo può essere riferito ad un’appartenenza etnica o nazionale, dal colore della pelle o al proprio giardino. Nello smarrimento seguito alla fine di una storia, questa è la risposta che si fa sempre più aggressiva e virulenta, soprattutto nei soggetti sociali che si sentono maggiormente vulnerabili rispetto ad altri che vorrebbero varcare la fragile soglia dell’inclusione.
Confini, muri, reticolati, spazi in cui non gira l’aria sono l’habitat della paura. Che si tratti dell’Europa “fortezza” o degli stati-nazione, del fondo genetico di un popolo o della balkanska krma18.
Anche questo avremmo potuto capire per tempo se avessimo saputo osservare, oltre gli stereotipi, quel che accadeva dall’altra parte del mare. Girando il nostro sguardo altrove, abbiamo scelto di non vedere.
1Paese che, è il caso di ricordarlo, fa parte del Consiglio d’Europa fin dal 1949.
2 Abkhazia, Armenia, Azerbajan, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Georgia, Lettonia, Lituania, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Ossezia del sud, Russia, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Transnistria e Ukrajna.
3Hannah Arendt, Tra passato e futuro. Garzanti, 2001
4«Non posso rischiare di perderlo. Dev’essere salvato. E’ più importante di me» disse a chi lo accompagnava nella fuga dalla Francia occupata descrivendo la pesante borsa nera che Benjamin portava con sé. Walter Benjamin, Angelus Novus. Einaudi, 2014.
5Howard Eiland – Michael W. Jennings, Walter Benjamin. Una biografia critica. Einaudi, 2015
6Il grande giglio ideato da Bogdan Bogdanovic che sorge nella vasta area dov’era il campo di concentramento di Jasenovac, al confine fra Croazia e Bosnia Erzegovina
7Il bilancio dell’Operazione Oluja in termini di vite umane perdute è piuttosto incerto e diverso a seconda delle fonte. Quelle indipendenti parlano di 2/3.000 morti e di almeno 250.000 profughi. Per una maggiore documentazione: Giacomo Scotti, Croazia, Operazione Tempesta. Gamberetti Editrice 1996. Posso testimoniare in prima persona di aver visto una distruzione sistematica delle case e degli edifici pubblici per centinaia di chilometri sia nella Krajina meridionale che in quella nord-occidentale.
8Giacomo Scotti, ibidem
9Da molti anni corrispondente di Osservatorio Balcani Caucaso – Transeuropa
10Drago Hedl, Silenzio elettorale. Marsilio 2017
11Paolo Rumiz, Maschere per un massacro. Editori Riuniti, 1996
12“Danubio, l’Europa s’incontra”, viaggio che organizzammo come Osservatorio Balcani dal 12 al 21 settembre 2003
13Si trattava della “Destrani Taraf”
14Uno dei personaggio di “Silenzio elettorale”. Opera citata
15“In vendita”
16Cui corrispondevano i diritti di insediamento, di appropriazione, di commercio, di propagazione della fede. Motivi di “giusta causa” per la “guerra giusta”. Tribunale Permanente dei Popoli. Sessione speciale su “La conquista dell’America e il Diritto internazionale. Sentenza, Padova – Venezia 5-9 ottobre 1992. http://permanentpeoplestribunal.org/la-conquista-dellamerica-latina-e-il-diritto-internazionale/
17Michel Serres, Il mancino zoppo. Bollati Boringhieri, 2016
18La locanda balcanica di cui parla Rada Ivekovic in Autopsia deì Balcani. Raffaello Cortina Editore, 1999