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22 Marzo 2019Questi eventi, con questo tipo di effetti sui boschi, sono già accaduti in Europa, ad esempio l’evento Gudrum nel 2005 produsse, tra Svezia e Norvegia, 87 milioni di m3 di schianti, Kirill nel 2007 in Germania produsse 52 milioni di m3 di schianti, Lotar e Martin nel 1999 in Francia produsse 240 milioni di m3 di schianti, Klaus nel 2009 nel Golfo di Biscaglia schiantò 44 milioni di m3 di legname. Solo per effetto del vento nel 2017 furono schiantati 15 milioni di m3, saliti a 20 milioni di m3 nel 2018 tra Germania, Austria, Svizzera e Repubblica ceca. Negli stessi territori il danno per infestazione di insetti fu di 12 milioni di m3 nel 2017 e 31 milioni di m3 del 2018.
Molti elementi inducono a pensare che questi eventi particolarmente violenti e distruttivi siano legati in qualche modo al cambiamento climatico. È un fatto che dal 1800 la temperatura nel pianeta è cresciuta di 0,94° gradi. Rispetto alle medie termiche estive dal 1971 al 2000, nel 2017, si registra in Italia un aumento della temperatura media di circa 2,5 gradi e una riduzione delle piogge del 41%. La siccità non è stata irrilevante nel determinare la scarsa resistenza allo sradicamento delle conifere colpite dalla tempesta Vaia poiché la capacità di resistenza dell’apparato radicale delle piante dipende anche dal tasso di umidità del terreno.
Problemi emergenti
I boschi danneggiati pongono diversi problemi determinati dalla vastità dell’area colpita, dalla diversa intensità e tipologia dei danni, da funzioni diverse delle superfici forestali e dalla morfologia molto complessa dei territori in cui è necessario intervenire. Per sottolineare questa complessità è sufficiente ricordare che la pendenza media dei boschi è molto variabile, come la distanza dei boschi da una strada forestale, così circa un quarto delle foreste danneggiate presentano gravi difficoltà di accessibilità. Per questi e per altri motivi un quarto del legname schiantato non sarà recuperato. In alcuni territori non sarà possibile effettuare alcun sgombero, in altre esso sarà solo parziale e solo in alcune si potrà intervenire su tutta la superficie danneggiata. Per ottenere un buon risultato è necessaria una rilevante capacità organizzativa logistica poiché serviranno piazzali di deposito e lavorazione del legname, manutenzione delle strade silvo pastorali e ordinarie per garantire la sicurezza dei trasporti, monitoraggio dei cantieri per garantire la sicurezza degli operatori, raccolta e trasformazione della ramaglia, conservazione del legname lavorato, coordinamento tra le diverse squadre forestali impegnate. Sembra un problema di semplice soluzione ma non è affatto così. Ad esempio, in Trentino sarà necessario ripristinare circa un migliaio di chilometri di strade forestali con una spesa prevista di circa 11 milioni di euro; per predisporre piazzali adeguati (circa 71 mila metri quadrati) si spenderanno circa 870 mila euro. Per tutte le nuove costruzioni sia di strade sia di piazzali sarà necessario investire 7 milioni di euro. Il Trentino prevede di spendere non meno di 21 milioni di euro solo per dotarsi delle infrastrutture necessarie per gli interventi nel bosco. Non sarà per nulla facile.
Le conseguenze economiche
Un altro aspetto estremamente importante riguarda le conseguenze economiche nella tempesta Vaia. Come ogni altra merce l’eccesso di offerta sul mercato ha un effetto depressivo sul prezzo. Questo è già ben visibile confrontando l’andamento delle aste boschive prima e dopo Vaia: il numero di aste deserte (nelle quali non si è presentato alcun compratore) è cresciuto dal 10% all’80%, e il prezzo del legname è sceso da circa € 75 metro cubo a € 28 metro cubo (dati riferiti a circa 340.000 m³, dei quali 230.000 m³ in piedi, venduti in 1.008 lotti dal 1° settembre 2017 al 31 gennaio 2019). Il mercato del legname venduto su strada ha subìto una riduzione di prezzo meno rilevante: i tronchi da sega hanno subito una riduzione da € 100 a € 65 a metro cubo. Fatto che dimostra che le comunità dotate di una solida filiera di trattamento del legname resistono meglio di quelle che hanno distrutto nel tempo le proprie capacità operative nella lavorazione del legno.
Il dato non stupisce poiché i tronchi disponibili oggi sul mercato sono circa sette volte di più della media dei tronchi da sega lavorati in un anno in Italia. Le prime stime calcolano in 174 milioni di euro su 434 milioni di euro totali il valore del danno determinato da questa offerta eccessiva sul mercato.
Si consideri, ad esempio, il caso di Cavalese che ha subìto circa 1,25 milioni di metri cubi di schianti, dei quali 374.000 m³ i boschi di proprietà della Magnifica Comunità di Fiemme, e lo si confronti con i 93.000 m³ metri cubi di ripresa normalmente attuata. O il caso di Primiero dove gli schianti sono stati di 378.000 m³ e la normale ripresa annua è di circa 37.000 m³.
Per rimediare a questa sciagura distruttrice sarà necessario procedere a una revisione dei modelli di gestione delle foreste, in particolare in Veneto e in Friuli, attivare tutte le potenzialità tecniche ed operative presenti nei territori boschivi invece di affidarci mercati esteri (austriaco e sloveno), attuare un investimento sul capitale sociale comunitario dei territori che ospitano grande quantità di bosco. Sembrano osservazioni banali ma, considerando che in Veneto i servizi forestali statali, regionali e provinciali sono stati completamente smantellati, che il 90% del legname viene venduto in piedi nel bosco a imprese austriache, che proprietari dei boschi sono stati lasciati soli, da almeno vent’anni, a prendersi cura del proprio patrimonio, si capisce come tali indicazioni siano invece pertinenti. E hanno un effetto immediato: mettono a nudo, in modo impietoso, la diversa struttura di governo dei territori colpiti. Se a Trento e Bolzano si vende il legname schiantato a 70-80 euro a m3, in Carnia a 24-32 euro a m3, a Belluno lo si vende a 12-24 euro a m3.
Il rischio fitopatologico
Un’altra questione di grande importanza è l’incremento dei parassiti che aggrediscono il legname schiantato che rappresentano un pericolo anche per quello rimasto in piedi. Si teme in particolare il bostrico ma vanno considerati anche la Coleoptera, il Curculionidae, lo Scolytinae. Il problema non è trascurabile: in Austria nel 2007 il danno prodotto dal vento nei boschi è stato di 19 milioni di m3 mentre quello prodotto dagli scolitidi è stato di 10 milioni di m3. In Europa, dal 1958 al 2001, ci sono stati in media 3 milioni di m3 per anno di legname rovinato dagli scolitidi. Il numero di focolai di infestazione da bostrico in Friuli, dal 1994 al 2017, sono cresciuti da 12 a 220. In Trentino la massa legnosa perduta per effetto del bostrico, dal 1990 al 2014, è cresciuta da 3.000 m3 l’anno a 24.000 m3.
Un albero schiantato o sradicato non è più grado di resistere all’attacco dei parassiti, che anche un albero vivo, ma soggetto a stress (come una prolungata siccità) è molto esposto all’attacco degli insetti e che un albero in buona salute è resistente ma non immune, si capisce come il rischio fitopatologico sia molto concreto.
Il degrado ambientale
È evidente a tutti coloro che hanno potuto vedere direttamente l’effetto della tempesta Vaia sui boschi, l’alterazione degli habitat e la riduzione della fruibilità di questi ambienti. Questi due effetti dureranno a lungo nel tempo. Molti si preoccupano dell’aspetto “estetico” sull’ambiente, e degli effetti che questo avrà sui flussi turistici. Preoccupazione legittima e in parte fondata, ma non è l’aspetto principale per i residenti. I boschi hanno nel 25% dei casi una funzione protettiva contro le valanghe e nel 10% dei casi una funzione protettiva dalla caduta di massi. Essi, inoltre, proteggono da frane superficiali e dal “debris flow”, ovvero le colate detritiche che si mettono in moto in caso di piogge intense su pendii non protetti. Come nel caso noto alle pendici dell’Antelao, in Valle del Boite. Queste funzioni del bosco talvolta sono spontanee ma, nella maggioranza dei casi, sono il frutto della programmazione e della coltivazione forestale a scopo di prevenzione. È utile ricordare anche che una cospicua quantità di legname a terra per un lungo periodo e in condizioni di siccità con il documentato incremento della velocità dei venti nelle valli dolomitiche, espone i boschi ad un maggiore rischio di incendi che, una volta innescati, non distinguono il combustibile schiantato da quello ancora vivo in piedi, moltiplicando il danno. Il venir meno di queste funzioni protettive espone i residenti a nuovi rischi ambientali, sempre presenti in territori montani ma acuiti dalla devastazione dei boschi vocati alla protezione degli abitati (esistono da secoli boschi a protezione dei paesi detti boschi da “vizza” nel bellunese). Questo fatto espone ad un altro non meno grave rischio che già si palesa. La regione Veneto ha già stanziato 124 milioni di euro per opere da edificare a protezione di strade e abitati da valanghe, slavine e da caduta massi. Ciò equivale a circa 124 km lineari di opere. Se esse sono in alcuni casi indispensabili in altri è opinabile la decisione di proteggere siti esposti a rischio valanghe e slavine per brevissimi periodi l’anno, quando sarebbe sufficiente interdire il transito in attesa di provocare la caduta della neve e il ripristino della circolazione in sicurezza. Inoltre un intervento così rilevante potrebbe avere sull’estetica dei luoghi, che tanto preoccupa i turisti, effetti ben peggiori di Vaia. Emerge in questo caso una giusta preoccupazione per l’incolumità dei residenti e dei visitatori associata ad una pretesa, irrealizzabile, di mettere in sicurezza un territorio che sicuro non lo è mai stato e mai lo sarà. Quest’ultimo aspetto manifesta uno dei difetti più preoccupanti dell’intera riflessione su Vaia: ovvero l’ostinazione a non voler fare i conti con gli equilibri che reggono un ambiente fragile, instabile e pericoloso.
Le visioni contrapposte
A. I boschi, anche prima di Vaia erano poco frequentati anzi, per meglio dire, quasi costantemente deserti. Li frequentano solo i forestali, i cacciatori, i cercatori di funghi, i proprietari regolieri, comunali e privati. In passato erano il luogo della produzione e della minuta cura da parte dei montanari residenti. Essi ne conoscevano gli intimi segreti, le debolezze, il valore, ne riconoscevano i suoni, i profumi, il linguaggio. Oggi ben pochi hanno conservato questa sapienza forestale, fonte di una mirabile, anche se spesso contradditoria, convivenza basata sul reciproco vantaggio e rispetto. Perciò la percezione dell’importanza del bosco, in particolare nelle Dolomiti è poco avvertita e poco compresa dalla maggioranza dei residenti e dei votanti in regione Veneto. I boschi veneti (circa 400 mila ha) sono per la metà in provincia di Belluno (circa 200 mila ha). Quasi tutti i boschi colpiti stanno in quota dove i residenti totali sono, ad esagerare, 50 mila. Di questi, coloro che vivono a contatto con i boschi in modo diretto o indiretto, che se ne occupano, non sono nemmeno 15 mila. Ciò spiega l’esiguo numero di imprese boschive (85), la quasi estinzione delle segherie (meno di 10), la riduzione a sole 2 mila imprese agricole, l’assenza di una filiera produttiva del legno (salvo qualche limitata eccezione), la vendita di quasi tutto il legname in piedi nel bosco. La maggioranza dei veneti e dei bellunesi vive lontanissima dai propri boschi e la minoranza che se ne prende cura quotidianamente e silenziosamente (a parte il rumore delle motoseghe) non ha alcuna rappresentanza e hanno la stessa consistenza politica degli gnomi e dei folletti.
È evidente che la visione del bosco è mitica e inconsistente in persone che non ne avvertono il valore e la fragilità. Non mi stupisce che la questione boschi in Veneto e in Friuli non sia un’emergenza. È difficile mobilitare competenze, energie e risorse economiche da investire su un problema che è vissuto come un problema degli altri. E questo senza mettere in dubbio la solidarietà umana che i veneti hanno manifestato per il bellunese, con grande generosità e sensibilità. È infatti stata ben visibile la rapidità e l’efficienza tecnica nell’intervento in emergenza quando l’agire solidale dei residenti ha trovato sostegno nella struttura della protezione civile affrontando e risolvendo con efficacia problemi molto gravi e complessi come il ripristino delle linee elettriche e telefoniche, il rifacimento di acquedotti e l’aiuto ai residenti per proteggere le case danneggiate. Questi sono aspetti che l’intera comunità veneta ha affrontato, imparando dagli errori trascorsi e per i quali ha predisposto strutture e organizzazioni adeguate. Il bosco, invece, pone problemi più raffinati, ai quali la tecnica non sa dare risposte sufficienti. E in questo le nostre comunità, allontanatasi dal territorio che le ospita, inconsapevoli dei delicati equilibri che lo mantengono ospitale, sono diventate incompetenti e inermi.
B. In secondo luogo non possiamo fingere che le comunità colpite da Vaia abbiano tutte le stesse capacità operative. Non è così, la provincia di Belluno ha 130 milioni a bilancio, per la difesa del suolo ha 7 milioni, per la tutela e valorizzazione e recupero ambientale ha 83 mila euro previsti per il 2019. L’ente provincia è stato privato di competenze (da 19 a 7), di personale (da 256 a 128) e di risorse (-40 milioni per anno dal 2015). La provincia di Belluno ha grandissime difficoltà ad operare, soprattutto nell’ordinaria amministrazione, ma la debolezza della struttura organizzativa manifesta i suoi effetti anche nelle emergenze dove però, può contare sulla mobilitazione dei residenti e sul sostegno regionale e dello stato che, invece, nella normalità latitano.
Le due province autonome di Trento e Bolzano hanno risorse, competenze e struttura organizzativa con una solidità incomparabili rispetto a quella di Belluno, e, di conseguenza, capacità operative ben superiori.
Per comprendere il significato di questo dato è sufficiente confrontarlo con il contesto come è possibile fare nella seguente tabella.
Leggendo i dati si può immediatamente notare le differenti strutture organizzative delle comunità colpite dalla tempesta Vaia. Ma per comprendere il reale significato dell’evento per le diverse comunità colpite è necessario pesare il valore pro-capite dei dati, come si può fare leggendo la seguente tabella.
Le risorse per la difesa del suolo pro-capite appaiono molto rilevanti per la provincia di Belluno ma questo accade perché tutti proventi dei canoni idrici riconosciuti alla provincia sono dedicati a questo scopo in bilancio preventivo. Le diverse disponibilità economiche riguardano il valore pro-capite dedicato al recupero ambientale regionale dove il Veneto (compreso Belluno), mostra un valore di 6,7 euro contro i 22, 12, 16 delle altre province e regioni a statuto speciale. Il peso delle aziende agricole attive, della SAU e dei boschi pro-capite non ha bisogno di commenti se non il rilevare che in provincia di Belluno c’è un ettaro di bosco per abitante che è un valore 10 volte più altro del dato veneto e molto più elevato anche di quello friulano. Se si valuta il peso per abitante dei boschi schiantatati e dei metri cubi di legname da recuperare si comprende benissimo come la rilevanza del problema sia molto diversa da luogo a luogo, gli 8,8 m3 di legname schiantato per residente di Belluno hanno un peso completamente differente rispetto al mezzo m3 del Friuli e del Veneto. Se poi si confrontano questi dati con quelli relativi alle imprese boschive e alle segherie richiamati prima il quadro non lascia spazio a dubbi. E tutto questo senza raffinare il dato; uscendo dal mero ambito amministrativo definito dai confini e valutando la situazione reale, ovvero confrontando i danni ai boschi in relazione alla comunità che li ha realmente subìti, la situazione diviene assai più grave. Facciamo solo due esempi: il comune di santo Stefano di Cadore ha subito una perdita di 250 mila m3 di legname riferiti a 2.511 abitanti, si ritrova con circa 100 m3 per abitante. Il caso di Nova Levante/Welschnofen è ancora più significativo, il danno è di 500 mila m3 e il peso per abitante è di 253 m3. Per questo il significato e le conseguenze di Vaia vanno valutate luogo per luogo e, per lo stesso motivo, le risorse non vanno distribuite in modo uguale in base a criteri ammnistrativi ma in proporzione al danno realmente subìto dai proprietari e dalle comunità colpite. Allo stesso modo gli interventi di recupero-ripristino ambientale devono essere calibrati e adottati caso per caso, in base ai caratteri orografici, alla pendenza, al valore, ai caratteri, alla funzione del bosco, alla concentrazione e alla diffusione degli schianti, all’accessibilità stradale alla proprietà, alla capacità operativa delle imprese boschive e di quelle agricole presenti, ecc.
In questo modo si comprende come fosse e sia molto difficile attuare l’auspicato coordinamento nella gestione del legname, sia per quello di valore sia per quello che dovrà essere utilizzato per la produzione di energia e di pellet. Questo squilibrio istituzionale derivante da un diverso potere riconosciuto agli enti, non è senza conseguenze sulla filiera lunga del legno. Basti pensare che Belluno ha solo 5 siti che utilizzano biomasse legnose per fini industriali o per la produzione di energia, il Friuli ne ha 78, Bolzano ha 77 impianti (nei quali utilizza 433 tonnellate di cippato l’anno), Trento ne ha 174. Bolzano ha 110 segherie attive, Trento 48, Belluno 21, Udine 28, Pordenone 18. È evidente che il settore è stato in Friuli e in Veneto abbandonato a sé stesso e, in mancanza di strategie e politiche adeguate è ridotto al minimo, perdendo capacità di produrre valore aggiunto. Lo stesso dato delle utilizzazioni forestali lo stanno a dimostrare: le tagliate a Trento nel 2016 sono state 6.966 e hanno interessato una superficie di 8.268 ha, a Bolzano sono state 8.761 su 14.520 ha, in Veneto sono state 1.795 su una superfice di 6.252 ha, in Friuli sono state 3.583 su una superfice di 1.950 ha. Ciò significa che il Trentino coltiva il 2,2% dei suoi boschi, Bolzano il 3,9%, il Veneto lo 0,6% e il Friuli l’1,56%. Non c’è altro da aggiungere.
La trappola della modernità onnipotente
Ciò che muove l’agire degli uomini sono il bisogno e il desiderio. I bisogni, almeno quelli primari (il necessario) possono avere una propria misura, un limite naturale che va educato con la temperanza. La virtù della moderazione che tempera e disciplina le passioni. Il desiderio è invece un moto della volontà verso la cosa che ci manca. “De-sidera”, come chi fissa con cupidigia le stelle, volendole possedere. Nella società contemporanea nella maggior parte dei casi i bisogni sono (con vaste eccezioni) soddisfatti. Se il processo produttivo si basasse solo sui bisogni primari saremmo rimasti all’economia di sussistenza e tutti i problemi legati alla crescita sarebbero già risolti. Potremmo dedicarci all’ozio, che al contrario del negozio, consiste nel non operare, ovvero nell’abbandonare la ricerca delle cose non necessarie per vivere e dedicarci al vivere bene, nella ricerca del bene per sé e per gli altri (che poi è la stessa cosa). L’apprezzare il bene che si ha e che si produce è, nella sostanza, perseguire le virtù. La rappresentazione della realtà economica e sociale attuale ci induce, invece, ad alimentare continuamente i desideri. Gli uomini si distinguono dal resto del regno animale proprio per la presenza del desiderio e nell’averlo trasformato da pulsione a stile di consumo e di vita. Si può desiderare solo ciò che non si ha. Questo potentissimo stimolo ci ha indotto ad aumentare enormemente il nostro potere operativo sulle cose che ci circondano (mediante la scienza e la tecnica) e, di conseguenza, anche sugli uomini che accettano questo paradigma. L’economia contemporanea produce tanto i desideri quanto le merci che li soddisfano. Ormai il desiderio s’è appiattito sull’oggetto in grado di placare l’ansia di possederlo. Senza che s’avverta che i posseduti sono i consumatori. Essi vivono dentro ad un inganno, una frode occulta: ogni attività produttiva è un’attività distruttiva. Se vuoi ottenere una merce ne devi distruggere altre. Lo compresero prima Marx, poi Schumpeter ed infine Piero Sraffa, che lo illustrò mirabilmente sul testo “Produzione di merci a mezzo di merci”. Non c’è modo di produrre alcunché senza distruggere qualcos’altro. Siano esse merci originarie o liberamente disponibili, come l’acqua, gli inerti, la terra, il legname o semilavorate come sono i tronchi franco segheria, le patate raccolte, il ferro fuso o una stoffa. Se vuoi la farina devi distruggere il grano, se vuoi il pane devi distruggere la farina, il lievito, il sale e l’acqua. Non per nulla il consumo è definito economicamente come la distruzione dell’utilità di un bene. La grande distruzione avvenuta per effetto della tempesta Vaia non è stata una scelta umana, ne ha solo accelerato e ingigantito i tempi e i metodi. Anche in questa occasione questo appare a molti come una occasione o opportunità produttiva. Un altro aspetto che non consideriamo mai, per ignoranza scientifica, è il secondo principio della termodinamica, il quale mette in perfetta evidenza che i processi produttivi hanno due caratteristiche. La prima è l’irreversibilità, si possono trasformare le mele in marmellata ma non si può riprodurre una mela dalla marmellata. Puoi trasformare un suino in salumi ma non si riesce a rifare un maiale dai salumi. La seconda è che ogni processo produttivo esige un lavoro che è energia attivata. Ogni volta che usiamo energia per fare un lavoro una parte di essa diventa calore e di disperde. Quello che noi chiamiamo oggi “riscaldamento climatico”, non è altro che l’accumulazione di questo degrado dell’energia potenziale che, nella produzione, diventa energia cinetica, elettrica, magnetica o chimica, disperdendo calore. Il calore altro non è che energia degradata. Certo, nel corso del tempo abbiamo affinato la nostra capacità di usare meglio l’energia disperdendone la minore quantità possibile. Questo si chiama aumento del rendimento meccanico o termico o elettromagnetico. Il nostro stesso organismo, come tutti gli organismi viventi consuma energia e la degrada in calore. Noi, se siamo vivi e vogliamo rimanere tali, siamo esseri consumanti per il solo fatto di respirare. Infatti abbiamo una temperatura media di 36 gradi. Questo processo di chiama entropia. Una volta che l’energia degrada in calore non si può più tornare indietro e trasformare il calore in nuova energia. Un po’ come il maiale di prima.
La montagna, in questo meccanismo produttivo ed entropico, tra bisogno e desiderio, tra produzione e distruzione è come un sasso d’inciampo; la montagna è fastidiosa perché, in questi territori obliqui e verticali, il paradigma della crescita infinita trova un elemento probatorio dei limiti della produzione. La montagna mette in evidenza il “limite” al quale i montanari si sono adattati da tempo, accettandolo e rispettandolo, mentre la realtà urbana, altamente artificiale, costruita sulla fuga dai limiti che il territorio impone ai suoi abitanti, è preda di una orgiastica e mortale illusione di onnipotenza. Il distacco dalla realtà (che è prendere atto del limite) produce alienazione e follia. Solo un alienato pensa di rimanere indenne se salta da una finestra al settimo piano. La montagna ti impone una scelta, o ci sali, o ci giri intorno, o ci scavi una galleria nelle sue viscere. Ognuna di queste tre scelte comporta un uso crescente di energia umana e di risorse economiche. Non c’è modo di superare questo potente ostacolo senza pagare un prezzo. I montanari lo sanno e salgono lentamente. I cittadini no. Infatti, salgono in montagna in una funivia, oppure su una motoslitta, su un fuoristrada. Usando energia in eccesso rispetto allo scopo. Ciò che la modernità esorcizza, detesta, odia e non vuole assolutamente vedere è che l’entropia ci costringe e ci costringerà a limitare i nostri desideri. Ovvero impone alle comunità umane (ancor più se globalizzate) di adottare comportamenti compatibili con l’equilibrio sociale ed ecologico. Le richiama al dover fare i conti con quel che il territorio offre loro. In alternativa c’è solo il dominio e lo sfruttamento. Ovvero, chi non tiene conto dei limiti toglie il necessario a molti per permettere di godere del superfluo a pochi. L’unica strada percorribile è l’assunzione di responsabilità, da parte di ogni individuo e di ogni comunità locale, di stare entro i limiti che il luogo dove abita gli impone. Con le necessarie eccezioni dovute all’assenza di determinate merci. Se questo accadesse le città si svuoterebbero in pochissimi giorni. Soprattutto le metropoli con milioni di abitanti che, per sopravvivere, svuotano e depredano tutti i territori che le circondano e che distano migliaia di chilometri da esse. Ecco perché la montagna e i suoi limiti è detestata e trascurata. Essa mette in evidenza il limite ed è guardata come colui che parla di corda in casa dell’impiccato. Per questo la montagna, che copre il 72% del territorio nazionale, è abbandonata, trascurata e deserta. Ecco perché si preferisce rimanere nell’inganno e ci si affida alla scienza e alla tecnica per risolvere un problema che non è scientifico e tecnico ma sociale. Che corrisponde a tentare di piantare un chiodo con una mozzarella.
* Diego Cason è sociologo ed esponente del BARD (Belluno Autonoma Regione Dolomiti). Questo articolo è apparso contemporaneamente su www.zerosifr.eu