Salviamoci con il Pianeta
12 Febbraio 2019Il Giorno del Ricordo come strumento per cancellare le memorie degli altri
13 Febbraio 2019A un certo punto cominciò anche a girare la voce che il vecchio dormisse dentro il centro ma i ben informati dissero che non era così e che il vecchio in realtà aveva anche una casa non troppo distante dal quel luogo nel quale trascorreva tutte le sue giornate. Solo il vecchio, naturalmente, sapeva come stavano esattamente le cose anche se pure lui ogni tanto, anche a causa dell’età, faceva un po’ di confusione.
Il vecchio aveva avuto in gioventù una grande storia d’amore. Una di quelle storie che ti segnano per sempre e che in realtà non finiscono mai. Quando era piccolo, non ricordava più il momento esatto, era “caduto in amore” per il pianeta nel quale viveva. Era stato un colpo di fulmine, un innamoramento folle che lo aveva portato per anni a percorrerlo in lungo e in largo, a congiungersi con lui in tutte le maniere possibili ed immaginabili.
Aveva cominciato amando il mare, poi un fiume che lo aveva fatto innamorare di tutti i fiumi. Era venuto poi il tempo delle montagne e delle foreste, l’idillio con la giungla, la passione incontenibile per le grotte e le gole dei fiumi. E poi tutto era precipitato in un unico immenso amore per il pianeta nel suo complesso, per tutti gli aspetti del suo essere selvaggio.
Il vecchio era stato sempre convinto del fatto che quell’amore era la matrice di tutti i suoi sentimenti, era il substrato fertile sul quale erano poi, negli anni, germogliati e cresciuti altri amori. L’amore per la donna che gli era stata vicina negli anni più belli della sua vita, l’amore per i figli che con questa donna avevano procreato, l’amore per gli amici, l’amore per le persone care con le quali aveva percorso un pezzo del suo sentiero.
Tutto ciò apparteneva oramai al passato e anche il suo primo amore era solo il fantasma di quella grande passione, un pallido amore fra vecchi (e solo lui sapeva quanto era invecchiato lui in quegli anni e quanto il pianeta), uno di quelli dei quali ci stupiamo quando vediamo per strada una coppia di anziani che ancora cammina tenendosi per mano. Ma il vecchio sapeva che l’amore non è puro principio, non è affermazione di volontà dalla quale poi non debbano derivare azioni.
Il suo grande amore era stato vivo e tenace fino a quando era stato in grado di camminare i sentieri, immergere i piedi nudi nella sabbia del mare, lasciarsi carezzare dall’acqua dei fiumi, impugnare una corda per calarsi sotto la cascata. Quello che era venuto dopo era solo ricordo e rimpianto.
C’era stato prima quell’incidente e poi quella prima malattia grave a causa della quale aveva quasi perso la vita. Da allora aveva praticamente perso l’uso delle gambe e la sua vista si era fatta debolissima.
La sua casa immersa nella campagna e che aveva tanto amato, si era allora trasformata in ciò che lui profondamente riteneva fosse: un contenitore. Ma se prima essa era stata contenitore di vita, di sentimenti, di urla bambine, con il tempo e dopo la sua malattia si era trasformata nel contenitore del suo corpo e dei suoi ricordi; in una parola: una prigione.
All’inizio non si era arreso alla sua sorte ma questo alla lunga gli aveva prodotto solo frustrazione ed impotenza, il tempo di quella pratica amorosa era passato e lui non riusciva a rassegnarsi.
Come è giusto che sia con gli anni era rimasto solo. Qualcuno ad un certo punto gli aveva consigliato di acquistare una di queste carrozzine elettriche a quattro ruote che ricordano vagamente uno scooter e che vanno comunque a passo d’uomo.
Per un attimo aveva creduto che questo avrebbe potuto riattizzare l’antica fiamma, che in qualche maniera lo avrebbe dotato di un qualche organo, anche se artificiale, che avrebbe potuto riaccendere la pratica da troppo tempo interrotta. Ma si rese presto conto che era solo un’illusione. Un paio di volte dovettero venire a recuperarlo nelle campagne attorno alla sua casa. Una volta si era impantanato e non riusciva più a rientrare e un’altra la carrozzina si era piegata su un fianco sbalzandolo a terra. E per fortuna in entrambi i casi aveva con se il telefono cellulare con il quale, nella sua vita precedente, aveva sempre avuto un pessimo rapporto.
A quel punto chi si occupava per ragioni mercenarie della sua salute e sicurezza aveva fatto in modo che lui non potesse avere più accesso a quella parvenza di mondo selvaggio che circondava la sua abitazione e lui era rimasto prigioniero della casa.
Poi un giorno, nel momento in cui il suo “dinsinvestimento sociale” aveva toccato il livello massimo e lui pensava seriamente a concludere la sua esperienza terrena, fece una scoperta.
E’ vero che il vecchio era stata da sempre una persona capace di farsi piacere ogni cosa, uno di quelli che hanno il dono insomma di fare di necessità virtù, ed è vero che lui questo lo sapeva bene, ma in quel caso pensò veramente di avere fatto una scoperta importante.
Durante una deprimentissima mattinata sprecata ad andare in giro per il centro commerciale vicino a casa sua, luogo che lui aveva sempre aborrito, seguendo come un cagnolino con la sua carrozzina la persona che si occupava delle sue necessità terrene, il vecchio aveva avuto una visione.
Mentre si trovava al centro del reparto dei surgelati, lì dove la capriata della struttura raggiungeva l’altezza maggiore finendo per trasformarsi in una specie di cupola, lui e lui soltanto assistette alla seguente scena: un gheppio, forse confuso dal sole che si rifletteva sui vetri del centro, forse incapace di frenare l’abbrivio preso nel tentativo di catturare una preda, entrò volando da uno dei lucernari aperti. Scartò un paio di volte a destra e sinistra nel tentativo di ridurre la velocità e poi riuscì a fermarsi in volo, al centro della cupola, come solo i gheppi sanno fare.
Per un misterioso gioco di correnti e remiganti il gheppio riuscì a prodursi in un incredibile “Spirito Santo” proprio sulla verticale del vecchio che lo stava a guardare con le lacrime agli occhi. E così restarono per qualche secondo l’uomo e l’animale, ai due estremi di un segmento teso fra la terra e il cielo. Da una parte il vecchio, oramai incapace anche solo di camminare, e dall’altro il gheppio che con il suo volo sembrava volergli dire qualche cosa.
Tutto durò pochi secondi, il tempo necessario affinché l’uccello recuperasse l’orientamento e individuasse il lucernario attraverso il quale riconquistare la libertà.
Il vecchio allora credette che il gheppio fosse una specie di messaggero del suo antico amore, un Cupido piumato che fosse venuto a ricordargli una cosa fondamentale che lui aveva dimenticato: il mondo selvaggio è pervasivo e si può trovare dove meno ce lo aspettiamo.
“Primavera non bussa, lei entra sicura, come il fumo lei penetra da ogni fessura”, queste parole lo accompagnarono per giorni, nel tempo in cui cominciò la sua esplorazione di quel mondo apparentemente artificiale che era il centro commerciale e nel quale lui si ripromise di scoprire tutti i segni che il pianeta aveva certamente lasciato, le tracce delle sue incursioni che avrebbe seguito per essere ricondotto al suo primo amore.
Dapprima studiò a fondo tutte le piantine che eroicamente colonizzavano gli interstizi fra i muri del centro e la pavimentazione stradale. Non lo interessavano tutte le piante messe in bell’ordine dalla mano dell’uomo ad arredare le aiuole del parcheggio, gli interessavano tutti quegli essere verdi, a volte minuscoli, che abitavano invece quei luoghi nei quali non erano stati invitati e che solo l’incuria di chi aveva in carico la manutenzione del centro, manteneva vive.
Una volta trovò un gruppo di minuscoli ombelichi di Venere stretti fra due mattonelle nella zona dove si consegnavano gli elettrodomestici, e una mattina rimase per ore, estasiato e commosso, davanti ad una felce che srotolava le sue prime due foglie attraverso una fessura nel cemento del parcheggio per i disabili.
Naturalmente all’esplorazione e alla scoperta faceva anche seguito la cura e il vecchio era quindi quotidianamente occupato a controllare che tutti questi esseri viventi fossero in salute, nessuno mettesse a rischio la loro vita, a far si che non gli mancasse quello di cui gli esseri verdi hanno bisogno: acqua, luce, un poco di terra.
Era un lavoro complesso, il lavoro di un giardiniere occulto che non vuole che a causa del proprio lavoro quell’improbabile angolo di natura selvaggia possa essere guastato dall’intervento dell’uomo.
Ma nonostante tutto con il tempo il vecchio poté spostare la sua attenzione anche verso l’interno del centro dove più difficile sembrava potere scorgere le tracce di cui lui andava disperatamente alla ricerca.
Ricordava ancora l’emozione nel trovare nei banchi del fresco alcuni yogurt con delle muffe verdastre in superficie, selvaggi messaggeri nemmeno vagamente paragonabili a quelle volgari muffe bluastre che si trovavano su certi formaggi erborinati e che erano figlie delle mani di qualche uomo che si era preso la briga di farcele crescere.
Oppure quella volta che un maggiolino spiccò il volo da alcune piante di agrumi prigioniere dei loro vasi di plastica nel settore del “fai da te” e si posò sul manubrio della sua carrozzina accompagnandolo durante quasi tutta la mattina nel suo giro quotidiano di controllo.
Erano questi i segni che cercava, erano questi i momenti nei quali riusciva ad avvertire ancora una pulsazione, un bacio lieve che il pianeta riconoscente gli posava sulla fronte, una carezza appena accennata a risvegliare un’altra passione, un altro tempo.
Il terriccio depositato sulle verdure non ben lavate o sulle patate, un’incrostazione di cocciniglie su un avocado proveniente chissà da quale paese esotico, la pioggia che scorreva lungo le vetrate del centro, un bambino incantato nel guardare una farfalla che chissà come e chissà da dove era riuscita ad entrare e adesso svolazzava attorno alle magliette multicolore nel reparto abbigliamento.
Il mondo selvaggio che un tempo gli aveva parlato con l’urlo della cascata o del vento, con le parole roboanti del tuono, con i colori vivaci dell’arcobaleno adesso continuava a comunicare con lui sottovoce, così come si addice ad una coppia di anziani che seduti l’uno accanto a l’altro rievocano ricordi di un tempo passato.
Poi venne il giorno fatale. Il vecchio quella notte aveva dormito male ed era arrivato un po’ più tardi al luogo dell’incontro quotidiano. Aveva dovuto adempiere in fretta (per quanto gli consentissero i 12 chilometri l’ora della sua carrozzina) ai suoi doveri di giardiniere costante e paziente per potere poi recarsi al reparto del fresco dove sapeva che quel giorno sarebbe arrivata un’intera partita frutti esotici che non intendeva perdersi per nessuna ragione al mondo.
Giunse che ancora le cassette colme di papaia, mango e ananas non erano state svuotate sui banchi e investito da una nuvola di profumi che già per conto loro lo rituffavano nella sua Africa di tanti anni fa, cominciò ad aggirarsi fra le pile di cassetta alla ricerca di qualche messaggio del suo amato.
Fu a quel punto che improvvisamente in una delle cassette intravide con la coda dell’occhio un movimento furtivo che lo indusse ad avvicinarsi. Quando fu a pochi centimetri della cassetta l’oggetto della sua curiosità si palesò e lui poté vederlo con chiarezza in tutta la sua bellezza attorcigliata attorno ad una papaia.
Il vecchio conosceva bene il serpente che adesso dolcemente scivolava verso di lui, lo aveva incontrato tante volte quanto piantava alberi sugli altopiani tanzaniani, lo aveva ammirato e lo aveva temuto, e adesso aveva un solo pensiero: portare via quell’essere meraviglioso e alieno a quel luogo lontano da lì prima che qualcuno degli impiegati addetti ai banchi lo scoprisse e lo riducesse in poltiglia.
Lasciò che il serpente scivolasse sotto la coperta che soleva tenere sulle gambe e con quello che gli sembrò essere il più bello fra i doni che il pianeta avesse deciso di concedergli si avviò verso l’esterno del centro.
Era già quasi sul prato che guardava verso il mare quando sentì i denti dell’animale entrare, quasi con dolcezza, nella sua coscia sinistra. Fu un attimo. Il vecchio riaprì gli occhi e si accorse di riuscire a guardarsi, come aveva fatto per tutta la vita, in una specie di soggettiva che gli restituiva con chiarezza alcune informazioni assolutamente nuove: non era più vecchio, non c’era più la carrozzina, al suo posto c’erano le sue gambe con gli scarponi ai piedi, abbronzate e nude perché come sempre indossava i pantaloncini corti per i quali i suoi amici lo prendevano sempre in giro. E camminava, poteva sentire i muscoli dei polpacci che si tendevano sulla salita, i piedi che sbriciolavano pomici nere su quella strade che riconobbe subito essere quella che aveva percorso tante volte sull’isola e che portavano al Passo del Vento.
Sentì dietro di se le risate dei bambini, con i quali non era mai stato prima in quel posto, e le risate vive e argentine della donna che era stata la sua compagna e che erano scomparse negli ultimi anni trascorsi assieme.
Sentiva tutto questo ma non li vedeva perché lui era arrivato prima all’appuntamento. E allora si sedette sul bordo di quel cratere spento migliaia di anni prima a guardare oltre la Montagna Grande, oltre il velluto del bosco, dove il mare incontra un altro continente e percepì la carezza dolce del vento sul volto e sui peli delle gambe.
Sentì le voci dei piccoli, le risate della donna. E soprattutto il vento.
* dal blog https://adoraincertablog.wordpress.com/