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Lo storytelling del rancore prodotto dalla crisi politica

Ci si adatta alla moltitudine senza scomporre e ricomporre il magma sociale del mercurio da cui è composta con uno storytelling suadente sull’iper-modernità che avanza verso community da democrazia diretta a proposito di Casaleggio, senza interrogarsi su cosa resta delle comunità concrete in divenire. Per prosciugare il rancore più che la benzina occorrerebbe una visione della politica che io auspico nell’interagire della comunità operosa delle economie che assieme alla cura, che rimanda al welfare di comunità e di territorio, può attenuare paure, solitudine e diseguaglianze che producono rancore.

Occorrerebbe una politica di visione. Non vorrei essere frainteso, nessuna nostalgia dell’autonomia del politico in nome dell’ideologia, ma auspico un’eterotopia del possibile partendo dal fare «comunità che viene» verso il fare società ed economia. Non viceversa, come praticato oggi anche dal narcisismo delle élite convinte che basti affermare ed imporre la potenza dei mezzi, dei flussi sui luoghi e sulle vite minuscole, senza interrogarsi sull’incertezza dei fini, come se il dispiegarsi del general intellect non dovesse fare i conti con le lunghe derive della storia e con l’intelletto collettivo sociale depositato nell’archeologia dei saperi sociali.

Sedimentati nel tessuto della società che ha metabolizzato grandi trasformazioni e cicli di discontinuità, dall’agricoltura all’industria, da questa al fordismo della città-fabbrica e dal postfordismo dei distretti e delle piattaforme produttive sviluppando saperi, competenze, conflitti, forme di rappresentanze sociali, economiche, politiche adeguate ai tempi delle dissonanze.

Oggi qui siamo, con un adattivismo senza visione della politica e con un narcisismo delle élite che cercano di presentarsi con una retorica dall’alto (il compianto Luciano Gallino l’aveva definita «lotta di classe dall’alto») che offre la conoscenza globale in rete soprattutto a base urbana e le città-stato di Parag Khanna come destino e come traccia di un futuro che verrà.

Anche oggi ragionare d’intelletto collettivo sociale significa mettersi in mezzo alla grande trasformazione leggendola nelle sue ambivalenze con Karl Polany e con Claudio Napoleoni rimettendo in mezzo all’economia, in preda al narcisismo delle élite e alla politica con il suo adattivismo da consenso, la società.

A pensarci bene nel salto d’epoca che dal latifondo e dalla mezzadria ci ha portato all’industrializzazione la comunità aveva i suoi interpreti in figure anche distanti per ruolo come Danilo Dolci e Adriano Olivetti o come Giuseppe Di Vittorio. Se poi arriviamo al fordismo lo abbiamo analizzato e raccontato come «mosche del capitale» per dirla con Paolo Volponi, e con analisi e conflitti che partono dall’operaismo di Quaderni Rossi” dal sindacalismo dell’operaio massa facendo anche letteratura della comunità operaia. Siamo addirittura riusciti a raccontare il primo postfordismo con i suoi distretti industriali attraverso il racconto di Giacomo Becattini, Giuseppe De Rita, Enzo Rullani e come pure ho provato a fare io con «Il capitalismo molecolare».
Oggi siamo alla ricerca di un nuovo intelletto collettivo sociale, adeguato alla nostra epoca. In questo senso occorre ripartire dalle tante comunità concrete resilienti ed altre rispetto all’ideologia dell’adattivismo e allo storytelling del rancore.

Occorre cercare oasi che rimandano all’attraversamento del deserto. La sabbia è tanta e l’esodo verso l’altrove incerto.

L’augurio per i prossimi anni a venire, è che questa proliferazione di resistenza sociale allo stato presente delle cose riesca a fare condensa. Che questi luoghi di resilienza che hanno incorporato un’altra visione, un altro modello di sviluppo e tracce di speranza di un altro mondo possibile, riescano a mettersi in mezzo per far crescere un intelletto collettivo sociale capace di essere rappresentanza che chiede reddito e senso contro le diseguaglianze.

* Questo articolo è apparso sul quotidiano “il manifesto” lo scorso 29 luglio.

 

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