Nel gorgo, per non abbaiare
25 Giugno 2018«Sicurezza». Oggi (Café de la Paix, ore 20.00) la presentazione del nuovo lavoro di Mauro Cereghini e Michele Nardelli
13 Luglio 2018Osservata un secolo dopo e con occhi non condizionati dallo schema interpretativo del materialismo storico, la questione meridionale appare come parte di quel processo invasivo (culturale oltre che materiale) che ha dato del Mezzogiorno un’immagine artefatta di arretratezza, laddove i parametri sui quali misurare il progresso erano rappresentati da una modernità che – a partire dall’unità d’Italia e dalla rivoluzione industriale – ha prodotto un progressivo depauperamento di regioni ricche di natura e di storia, di cultura e di sapere.
In questo nostro immergerci nelle aree interne del Mezzogiorno abbiamo avvertito oltremodo la vicinanza con il “pensiero meridiano”, eresia che ha attraversato il Novecento accomunando nella critica alla vulgata economicistica dominante figure come Walter Benjamin, Albert Camus, Hannah Arendt, Pier Paolo Pasolini, Franco Cassano…
Non si tratta solo di un Mezzogiorno raccontato … dai Savoia. E’ qualcosa di ben più profondo che chiama in causa lo smarrimento della cultura del limite sulla quale ci ammoniva con straordinaria lucidità e chiaroveggenza il Leopardi del suo soggiorno napoletano, nel cogliere la frattura fra l’uomo e la natura proponendoci la metafora del “Fiore del deserto”3.
Salvemini e Gramsci erano intellettuali espressione di queste terre. Ma – come scrive Franco Cassano – «il pensiero meridiano non muove della passione identitaria bensì da una riflessione sul lato d’ombra di ogni identità».
Rispetto al fondamentalismo dell’economia, il Mediterraneo è l’idea di uscire dall’etnocentrismo di stampo germanico, il mito del Reno nel regno dei Nibelunghi, della terra non contaminata dal mare e, come osservava Albert Camus, della “dismisura”. Quell’assenza di limite che è all’origine tanto del mito prometeico dell’uomo signore assoluto del mondo, come dei totalitarismi del Novecento che hanno sacrificato la natura e la bellezza in nome dell’azione e della potenza. Ne sono venuti Auschwitz, l’arcipelago Gulag, Hiroshima… la banalità del male.
Nessuno può chiamarsi fuori. «La storia della prima Internazionale in cui il socialismo tedesco lotta senza posa contro il pensiero libertario dei Francesi, degli Spagnoli, degli Italiani, è la storia delle lotte tra ideologia tedesca e spirito mediterraneo. Comune contro stato, società concreta contro società assolutista, libertà riflessiva contro tirannia razionale…»4.
«Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca – scrive Walter Benjamin – come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare. Di qui c’era solo un passo all’illusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi nella direzione del progresso tecnico, fosse già un’azione politica»5.
Al contrario, il pensiero meridiano ci appare come la necessità di recuperare la lentezza a dispetto della velocità, la sobrietà rispetto all’ossessione della produzione e del consumo che ci ha portati sull’orlo dell’abisso di un’insostenibilità che ci ostiniamo a non vedere.
Analogamente, proviamo ad uscire – seppur con fatica – da una storia segnata dal materialismo storico e dal realismo politico che ha sacrificato l’umanesimo al machiavellismo, una separazione fra mezzi e fini che ha avuto come esito un’eterogenesi che ha trasformato il progresso in delirio, il sogno in terrore.
Avremmo dovuto comprenderlo, interrogandoci per tempo sulle radici di questa deriva. In realtà, in assenza di una rigorosa elaborazione collettiva del Novecento, il passato incombe. Così si continua a leggere il presente con le stesse chiavi di lettura di un secolo fa, sulla base di indicatori come il PIL o l’andamento dei consumi che descrivono in maniera distorta la realtà, seguendo parametri nazionali quando i processi economici (e non solo) sono almeno sovranazionali. Allo stesso modo, il Mezzogiorno sarebbe fattore di sottosviluppo, categoria quest’ultima fuori dal tempo perché sviluppo e sottosviluppo nella globalizzazione e nella finanziarizzazione dell’economia non esistono più6.
Nel fondamentalismo economico novecentesco le risorse della natura, la storia e le opere d’arte che la raccontano, le tradizioni e i saperi che si materializzano nei mestieri, l’agire umano nel suo interloquire con il territorio, non sono contabilizzati. L’esito è che si è poveri nella ricchezza.
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Rileggo d’un fiato “La questione meridionale” di Antonio Gramsci, nell’edizione degli Editori Riuniti del 1974 curata da Franco De Felice e Valentino Parlato. E’ invecchiata nella mia biblioteca tanto che vi ritrovo la ricevuta di un soggiorno di quarant’anni fa a Ribcev Laz, paesino nei pressi del Lago di Bohinj, in Slovenia, che visitai quando ancora c’era la Jugoslavia di Tito. Insieme a due biglietti della Slap Savica, la cascata che dà origine alla Sava che continua, malgrado le carte geografiche non siano più le stesse, a gettarsi nel grande Danubio nel cuore di Belgrado.
E’ come ritornare sui propri passi. Quegli scritti, che un tempo mi erano parsi illuminanti, oggi mi fanno capire quanto fosse stato fuorviante lo schema interpretativo che cent’anni fa il giovane marxista utilizzava nel leggere un Meridione che avrebbe potuto uscire dal sottosviluppo solo grazie all’industrializzazione dell’agricoltura e all’alleanza fra il moderno proletariato industriale del nord e le masse contadine del sud, proletarizzate dall’educazione collettiva ricevuta nelle trincee della prima guerra mondiale7.
Nello storicismo dominante, il Risorgimento rappresentava la culla della nascita dei moderni stati nazionali e il superamento della “questione meridionale”, ovvero del sottosviluppo del Mezzogiorno, come condizione per superare quella che Gramsci definisce “disgregazione sociale”, l’estraneità delle masse meridionali rispetto allo stato unitario.
«Il contadino – scrive Gramsci – è vissuto sempre fuori dal dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale: è rimasto un elemento anarchico, l’atomo indipendente di un tumulto caotico, infrenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo»8. Il proletariato dunque come classe nazionale il cui compito era imporre il problema dello Stato anche alle parti più arretrate della popolazione lavoratrice.
Lo stato contro la comunità, il modello industriale contro il lavoro artigiano e l’agricoltura, la dismisura contro la misura, il fuoco prometeico contro la cultura del limite.
Anche in queste latitudini lo scontro fra Marx e Proudhon, fra ideologia tedesca e spirito mediterraneo, ha lasciato il segno.
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Errico Malatesta e Carlo Cafiero partirono dal Matese, oggi come allora al centro di tre regioni e con possibili vie di fuga in almeno cinque province diverse, nella loro impresa insurrezionale. Aree interne, ma non lontane da Napoli.
Per scelta e per caso anche noi siamo qui, dopo una visita a L’Aquila assurta a simbolo di un terremoto che ci accompagnerà in tutto il nostro itinerario, a rappresentare il richiamo della forza della natura verso il delirio dell’homo faber.
Partiamo anche noi dal Matese, senza velleità rivoluzionarie, con il solo desiderio di capire e senza ancora aver messo a fuoco che il tratto di questo viaggio risulterà, almeno ai miei occhi, proprio quello inerente la domanda iniziale di questo scritto: esiste (ed è ma esistita) una questione meridionale?
La vicenda della Repubblica del Matese non è solo il richiamo ad una pagina romantica della storia di questa terra. Malgrado un paesaggio che potrebbe farci sembrare improbabile che proprio qui, in questi borghi antichi, centoquarant’anni fa gli internazionalisti abbiano tentato il colpo insurrezionale, ci riporta al cuore di una vicenda profondamente moderna e che avrebbe segnato tutto il secolo successivo e anche oltre.
«L’Europa non è mai stata altrimenti che in questa lotta fra meriggio e mezzanotte» scrive Albert Camus9. E proprio in queste terre alte incontriamo in nuce le grandi questioni che il Novecento ci ha consegnato irrisolte, il conflitto fra “magnifiche sorti” e senso della misura, fra lavoro e ambiente, fra centralismo statalista e federalismo, fra città e campagna.
Ma, a ben vedere, anche i nodi che hanno segnato con effetti devastanti la storia del movimento operaio, il significato dell’agire politico, il rapporto far intellettuali e società, il tema cruciale del potere.
E’ la voce narrante di Bruno Tomasiello che ci accompagna in questo racconto fra passato e presente, a spiegarci che gli internazionalisti, con la loro “propaganda del fatto”10, nemmeno non si ponevano il problema di prendere il potere, semmai di indicare al popolo come si faceva11. Destinati a perdere, ma almeno a non diventare demoni.
Per uno sparuto gruppo di anarchici i Savoia mobilitarono dodicimila soldati. E l’insurrezione finì. Non le contraddizioni, non il blocco agrario che governava il Mezzogiorno. E così s’impose nel tempo l’idea che la questione meridionale potesse trovare soluzione in quel disegno unitario rappresentato dal processo di sviluppo capitalistico e dai suoi caratteri di “meccanica necessità” che ne presiedono il funzionamento. Questo era lo schema che Gramsci, andando oltre il più tradizionale meridionalismo di Salvemini e chiuso anch’egli nell’orizzonte dell’ideologia tedesca, aveva immaginato.
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La storia andò in altro modo, ma non nei suoi presupposti economicistici, così che il Mezzogiorno è diventato per il secolo seguente un simbolo di arretratezza, bisognoso di quello sviluppo capitalistico che avrebbe unificato il paese. E mentre a sinistra si continuò a pensare che la questione meridionale rappresentasse il nodo strategico della rivoluzione italiana, ovvero «la sconfitta del blocco conservatore che trova sempre più la sua saldatura e la sua unità nello Stato»12, altri coltivarono l’idea di uno sviluppo dualistico, di uno squilibrio al quale porre rimedio attraverso interventi straordinari calati dall’alto, politica che avrebbe avuto la sua dimensione simbolica nella “Cassa per il Mezzogiorno”. E’ la storia di un Meridione che ha introiettato a tal punto questo racconto da diventarne insieme vittima e carnefice, tanto da ritrovarsi ancora oggi alle prese con gli scheletri ingombranti di quella politica e dei suoi veleni.
Non siamo né a Gioia Tauro, né a Taranto. Ma anche in questo nostro itinerario nelle aree interne del Mezzogiorno, malgrado l’intelligenza di comunità che cercano strade diverse, i segni di quel modello verticale, centralistico ed invasivo sono evidenti, tanto nelle forme più tradizionali (si pensi agli impianti ENI nel Vulture o allo stabilimento Fiat/FCA di Melfi), quanto in quelle nuove (e non meno impattanti) delle pale eoliche che per centinaia di chilometri hanno invaso l’orizzonte dell’Irpinia orientale.
Così queste terre sono state spolpate. Nella ricchezza della loro terra, nello stravolgimento di modelli di sviluppo esogeni, nello spopolamento di antiche e nuove emigrazioni, nell’aggressività dell’economia criminale, ma anche di politiche calate dall’alto che hanno trovato tutela nel metodo mafioso e paternalistico, dirottando le risorse finanziarie dello Stato su investimenti tanto casuali quanto insostenibili, di inguardabili ricostruzioni post terremoto (e di borghi abbandonati senza che ve ne fosse la necessità).
Nel parlarne con gli amministratori più avveduti della Comunità montana del Titerno coinvolti nella Strategia nazionale per le Aree Interne – che su impulso di Fabrizio Barca pure aveva suscitato grandi aspettative – avvertiamo una certa delusione, in primo luogo per il carattere farraginoso delle procedure e poi per l’omologazione indotta da strategie “buone” per ogni territorio. Che peraltro non sembra produrre né critica verso un modello verticale, né ricerca di forme partecipative in grado di far leva sulle forze interne a ciascuna comunità. Conosciamo bene anche in altre latitudini cosa comporta la disponibilità di risorse finanziarie in assenza di fervore comunitario. Le idee non mancano, ci viene detto, ma responsabilità e autogoverno non si improvvisano, esattamente come non sono date una volta per tutte.
Anche Matera non sfugge a questo destino. Perché anche il divenire capitale europea della cultura 2019 rischia di rientrare nella logica delle grandi opere, in termini di banalizzazione e di invasività. I sassi non sono un presepe per ricchi, così come le opportunità dei finanziamenti europei non possono venir gestiti attraverso “programmi Frankenstein”.
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Decine e decine di incontri ci parlano di territori che risistono, di comunità che cercano seppure con fatica le strade di uno “sviluppo meridiano” che mette a valore il patrimonio umano e materiale di queste terre provate, certo, ma non piegate.
Abbiamo cercato e sentito l’eco dei suoni antichi ma vivi che – come scrive Vinicio Capossela – induce a restare o a ritornare sui propri passi, per non darla vinta al demone del progresso. Richiede, qui come altrove, un cambio di paradigma. Il pensiero meridiano, quel tornare “a pensare da sé” tanto caro ad Hannah Arendt che accompagna la prassi con la riflessione e la contemplazione.
In questo viaggio non ho percepito una questione meridionale. Terre che in un mondo interdipendente richiedono autonomia, lentezza, misura. Non c’è in questo alcuna “saggezza povera”, c’è piuttosto uno sguardo lungo che richiede di «lasciare l’epoca e i suoi furori adolescenti»13.
* Voglio ringraziare tutti i compagni di viaggio e gli amci che hanno reso possibile questo viaggio ricco di spunti e questa stessa riflessione
1Espressione usata da Manlio Rossi Doria per descrivere l’alta Irpinia. Manlio Rossi Doria, La terra dell’osso. Mephite, 2003. Anche in Vinicio Capossela, Il paese dei coppoloni. Feltrinelli, 2015
2www.zerosifr.eu
3Giacomo Leopardi, La ginestra (o il fiore del deserto)
4Albert Camus, L’uomo in rivolta. Bompiani, 1994. Pag.326
5Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti. Einaudi, 2014. Pag.81
6Mauro Cereghini, Michele Nardelli, Darsi il tempo. EMI, 2008. Pag.37 e segg.
7 «Il problema dell’unificazione di classe degli operai e dei contadini si presenta negli stessi termini: essa avverrà nella pratica dello stato socialista e si fonderà sulla nuova psicologia creata dalla vita comune in trincea». Antonio Gramsci, La questione Meridionale, ER, 1974. Pag.66.
8Ivi, Pagg.64 e 65
9Albert Camus, L’uomo in rivolta. Bompiani, 1994. Pag.327
10 «Innanzi tutto, non bisogna giudicare la banda dal punto di vista della possibilità della vittoria. Noi non pretendevamo di vincere, poiché sapevamo che alcune diecine di individui armati di fucili quasi inservibili non possono vincere delle battaglie contro dei reggimenti armati di Vetterly. Partigiani della propaganda, coi fatti noi volemmo far atto di propaganda; persuasi che la rivoluzione bisogna provocarla, noi facemmo atto di provocazione». Bruno Tomasiello, La banda del Matese, 1876 – 1878, Galzerano, 2009
11 «La suggestione del messaggio arrivò persino a toccare l’animo di qualcuno: «Una donna», riportò Eugenio Forni nella sua requisitoria al processo di Benevento, «cui scendeva assai seducente nel cuore la promessa di tutto quel ben di Dio, ansiosa di vederne affrettato il conseguimento, si caccia nel più folto del rimescolio presso l’oratore; e volta a lui, ad alta voce e con piglio imperioso, chiede in nome del popolo che la banda, prima di andarsene, provveda per la divisione delle terre. “Ma no! Ci manca pure il tempo di farlo — risponde l’oratore — dovete far da voi; la banda deve andare altrove: I fucili e le scuri ve li avimo dato, i cortelli li avite. Se volite facite, se no vi fottite”».
12De Felice, Parlato, Introduzione a Antonio Gramsci, La questione meridionale. Editori Riuniti, 1974. Pag 46
13Albert Camus, L’uomo in rivolta. Pag.335
5 Comments
Caro cugino,
scrivi in maniera avvincente e hai un bello sguardo sul Sud. Ma, il tuo approccio al pensiero meridiano è quasi identico a quello di Latouche sulla decrescita, ovvero su uno dei suoi libri più recenti dove parla di abbondanza nella sobrietà o qualcosa di simile. Purtroppo, oggi il processo di mercificazione è così avanzato che ha prosciugato le diversità
meridionali e quel senso meridiano della vita, direi meglio mediterraneo, che ci accumunava ad altri popoli del Sud. Oggi noi viviamo una desertificazione sociale, umana e generazionale: 2 giovani su 3 negli ultimi dieci anni hanno lasciato il Sud almeno una volta per cercare lavoro o per motivi di studio. La Calabria perde da 20 a 30.000 abitanti l’anno e nel 2025 avremo che gli over 65 saranno quasi il 40% della popolazione.
Ma, ne parliamo a lungo se allunghi il tuo passo e arrivi qui, tra Scilla e Cariddi dove una volta passava la grande Storia e poi è scomparsa negli abissi.
Un grande abbraccio
Tonino
Ho letto ed apprezzato i due pezzi, quello di Micaela di resoconto del viaggio e la tua riflessione politica sulla “questione meridionale”.
Gli spunti che ne derivano sono innumerevoli, ma quello che colpisce di più è capire se un “pensiero meridiano” avrebbe potuto stimolare uno stato italiano diverso, evitandone la deriva centralista-nazionalista e l’assolutizzazione del modello di sviluppo capitalista centrato sul manifatturiero e di fatto l’alleanza tra destra e sinistra con il capitale che lo governava (Cassa per il Mezzogiorno).
Ma soprattutto c’è da capire quali spazi reali ci siano per la politica “italiana” dell’oggi, che non a caso vede l’alleanza tra proposte contrapposte (flat tax e reddito di cittadinanza) che nascono ormai come portato storico della divaricazione irrecuperabile tra nord e sud. Peraltro questa divaricazione si produce, sia pur con modalità diverse, in ogni territorio determinando squilibri e sprechi (il Trentino anche come area interna, la nostra montagna, etc.). Potrebbe una rifondata UE essere in grado di interpretare contemporaneamente “un pensiero della crescita” nella globalizzazione degli scambi ed un “pensiero meridiano”, magari utilizzando i cosiddetti ritardi come opportunità per nuovi percorsi?
Questa estate mi sono riproposto di riflettere sulle tante banalità che ho scritto ultimamente e cercare qualche ragionamento coerente sia sul superamento degli stati nazione che sulle conseguenze disastrose della economia politica sulle condizioni di vita dei cittadini e dei territori. Penso e spero di poter utilizzare gran parte delle tue riflessioni sul viaggio nelle “terre dell’osso”.
Altra questione: da tempo sto cercando di impegnare il Patto per l’Autonomia in una direzione politica di inquadramento diverso del tema della sicurezza, passando dalle forze dell’ordine e dalle pistole a quello di un concetto generale che riguardi territorio, welfare e cura della comunità. Quindi mi interessa molto quanto hai scritto con Cereghini. Nel caso si potrebbe anche pensare a qualche presentazione in autunno, non tanto come partito ma con associazioni del territorio (ad es. Legambiente – a Gemona peraltro è dirigente proprio il fratello di C.- o le reti di economia solidale).
Nel prossimo periodo, da metà luglio a quasi fine agosto, dovrei essere in Austria (Lesachtal) ma comunque sono raggiungibile per mail.
Cari saluti Giorgio
Letto e condiviso in particolare nella critica al pensiero illuminista che impregna tutta la cultura occidentale. Oggi una simile critica è quasi possibile senza essere bollati di essere reazionari.
Come sai ho un solo dubbio, ed è quello che indica la soluzione nella strada delle microesperienze o come altri chiamano delle buone pratiche. Non propongo un pensiero compiuto universalistico, ma credo che le micro-esperienze non ci esimano da grandi battaglie appunto universaliste.
Un abbraccio.
Emilio
Grazie l’ho letto con molto interesse, da parte di madre sono Irpina, so poco o nulla di quella terra che fa parte anche della mia storia familiare! Mi hai fatto venir voglia di tornare la da dove manco da almeno 15 anni! E di saperne di più sul pensiero meridiano!
Grazie Michele
Grazie Michele e buon proseguimento.
Credo inoltre che in Italia stia tornando il momento di una reazione diffusa creativa e propositiva di fronte al dilagare del “Salvinismo” culturale sociale e politico ed al procedere di un governo “monstre” (credo non per molto dato l‘interesse di Salvini ad elezioni anticipate per passare all’incasso e liberarsi dei 5Stelle). Tutta la “Sinistra” (o comunque il mondo “democratico”) deve RIGENERARSI più che rifondarsi e sarà anche responsabilità di tanti NOI singoli/e se non proveremo a stimolare tale processo rigenerativo.
Spero di reincontrarti in qualche tempo e luogo partecipe di tale rigenerazione: tu lo stai già facendo con il tuo originalissimo viaggio ed io nel mio piccolo ogni settimane ed ogni mese in rete ( e non solo ) con la mia piccola MONDITA e la rivista MONDITAreview.
Ciao buon tutto.
GP