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E’ questa la domanda che ho posto nei giorni scorsi al Congresso regionale di Slow Food del Trentino Alto Adige – Südtirol che ha eletto il nuovo Coordinamento e indicato la persona che dovrebbe andare a far parte del consiglio nazionale di Slow Food.

Credo infatti che la consapevolezza dell’insostenibilità debba entrare a pieno titolo nel pensiero e nelle pratiche di un’associazione sovranazionale come Slow Food che pure fa della sostenibilità globale uno dei suoi tratti qualificanti. Accanto al “buono, pulito, giusto e sano per tutti” che la Dichiarazione di Chengdu ha assunto nel settembre scorso attraverso il voto dei quattrocento delegati presenti al congresso internazionale di Slow Food, la cultura del limite dovrebbe diventare uno dei “fondamentali” dell’associazione non solo sul piano delle implicazioni ambientali, economiche e sociali ma anche sul terreno dell’azione politica quotidiana.

Il limite è un tema antico e al tempo stesso di straordinaria attualità perché, a ben vedere, esso ha a che fare con le guerre per il controllo delle risorse, i cambiamenti climatici, le migrazioni, l’incertezza del futuro… ma anche con le paure del nostro tempo e con l’insana idea che 3 miliardi di esseri umani possano diventare scarti, esuberi condannati all’esclusione.

E nonostante finalmente si riconosca l’urgenza di ridurre le emissioni di gas climalteranti, il concetto di limite non trova spazio nei programmi di governo che invece continuano a credere nel paradigma della crescita, quale che sia il loro orientamento politico.

Anche l’enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco che di fronte ad un contesto «inedito per la storia dell’umanità» chiede con forza «il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito» e di imboccare «un’altra rotta», sembra un grido nella solitudine e ben lungi dal portare ad un cambio di paradigma.

Non è solo questione degli enormi interessi in gioco. Affermare la necessità di riconsiderare i nostri consumi non porta consenso e allora si preferisce imboccare la strada del sovranismo, quel “prima noi” che sembra essere diventato il programma politico emergente sotto ogni latitudine, come affermazione di privilegio oppure come auspicio di inclusione per qualcuno e di esclusione per molti.

Così la parola “sostenibilità” smarrisce il suo significato. Le parole non sono più parole, hanno smesso di comunicare, banalizzate al punto da diventare in questo caso quel che nell’immediato si può fare a prescindere dal carattere irreversibile con cui consumiamo le risorse e modifichiamo la natura.

E’ l’insostenibilità il segno del nostro tempo. Il Global Footprint Network ci ha insegnato che l’insostenibilità può venir misurata come “impronta ecologica”. Studiando, anno dopo anno, sulla base di parametri sempre più accurati, l’overshoot day, il giorno in cui il pianeta, un continente, una regione consuma più di quanto sarebbe lecito in riferimento a quanto gli ecosistemi sono in grado di produrre.

E se a livello globale il giorno del superamento è stato nel 2017 il 2 di agosto, per l’Italia nel 2018 è il 24 maggio (vedi allegato). Una deriva nell’insostenibilità di cui siamo responsabili se consideriamo che nel 1961 il pianeta consumava la metà delle risorse disponibili, che ancora nel 1987 eravamo pressoché in pareggio e che da quel momento ogni anno la lancetta dell’impronta ecologica si è andata anticipando consumando quel che dovremmo portare in dote a chi verrà dopo di noi.

Una misurazione che può avvenire in ogni territorio, tanto è vero che nel 2011 per iniziativa di Agenda 21 e del Parco Naturale Paneveggio – Pale di San Martino venne misurata l’impronta ecologica del Trentino indicando nel 6 giugno il proprio overshoot day. Quella ricerca venne sostenuta dalla Provincia Autonoma di Trento che però in seguito visto l’esito non proprio lusinghiero si guardò bene dal rifinanziare.

Nel congresso di sabato scorso ho proposto che Slow Food faccia dell’impronta ecologica non solo uno strumento di misurazione della sostenibilità dei territori ma anche dell’efficacia delle politiche ambientali, economiche e sociali messe in atto dai governi nel definire obiettivi parziali di rientro nella sostenibilità.

Obiettivi verificabili per dare sostanza al cambio di paradigma di cui andiamo parlando e che investe anche i nostri stessi comportamenti individuali2. Sui quali costruire alleanze territoriali e regionali, immaginando anche su questo piano nuove geografie e nuove cittadinanze.

 

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