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Movimento disordinato. Equilibrio da trovare.

Parallelamente si muove la galassia del civismo, con tutte le ambiguità che questo termine porta con sé. In forme diverse – il manifesto di Geremia Gios o l’appello/incontro di Renzo De Stefani, le oscillazioni dei Sindaci – ci dicono che ognuno è impegnato ad alzare la polvere che può, a dissodare il terreno che gli sta più vicino, a mettere insieme quelli che si trova attorno. Questo perché sembra sempre più evidente che la transizione politica trentina, pur già in corso da qualche tempo, ha nell’ultimo mese subito una repentina accelerazione.

Cosa ne sarà di tutta questa agitazione? Si dissiperà nel breve volgere delle prossime settimane finendo per agire solo sulla scomposizione e ri/composizioni (simboli, liste, aggregazioni, candidature) della prossima campagna elettorale o sarà da stimolo per la trasformazione anche della struttura sociale e politica – in termini davvero radicali – del Trentino? Come si depositerà il pulviscolo che in questo momento impedisce una visione d’insieme ma che parallelamente descrive una potenziale vitalità dello scenario trentino, tanto sociale quanto, di conseguenza, politico?

C’è lo spazio – non è la prima volta che provo a scriverne – per ipotesi ambiziose, che tengano conto del rapporto stretto tra territori e mondo, che propongano modelli economici e di produzione/consumo circolari e sostenibili, che abbiano il coraggio di disegnare strumenti e processi di partecipazione democratica più diffusi, orizzontali e inclusivi, che sappiano sfidare i luoghi di confort dentro i quali ognuno preferisce galleggiare, che sappiano coniugare responsabilità nei confronti dei beni comuni e capacità collettiva di disegnare futuri desiderabili. Che sappiano, per capirci, offrire un nuovo scenario dentro il quale riconoscersi e del quale voler far parte, per il quale impegnarsi.

Solo chi riuscirà a farsi carico – con buona lungimiranza, oltre che di un certo tasso di utopia, con sufficiente spirito federatore – della “comunità che viene” (dentro un orizzonte autonomistico di tipo europeo; meno identitario, retorico e difensivo, così come anche le pericolose conseguenze del corto circuito catalano ci suggeriscono) più che della “comunità che c’è” farà un buon servizio alla comunità stessa e non solo al proprio destino e alle proprie ambizioni personali. Quelle ambizioni personali che ancora, in attesa di vederci più chiaro, sembrano reggere i fili di ogni movimento e impediscono di trovare un pur fragile e non definitivo equilibrio.

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