Il crepuscolo di un sistema
7 Febbraio 2018Autonomie cooperanti. L’utopia di un’Europa che si fonda sull’autogoverno territoriale.
12 Febbraio 2018La risposta alla globalizzazione non è l’assunzione dell’interdipendenza come paradigma del presente, bensì l’esplosione di identità escludenti, in sottrazione, incapaci di comprendere che ciascuno di noi porta in sé il tempo universale[1]. Invochiamo sicurezza per difenderci dall’altro quando l’etimo di questa parola è piuttosto “prendersi cura”. Ci aggrappiamo alla sovranità degli stati-nazione quando è palese che niente più è nazionale, una scala troppo piccola per abitare i flussi globali e troppo grande per interpretare i territori.
Vecchi paradigmi per un contesto inedito. A guardar bene, siamo fra il “non più” e il “non ancora”. Ma è proprio in questo passaggio che si pone la necessità di uno scarto di pensiero, in assenza del quale non faremo altro che rincorrere il presente, in una continua emergenza che altro non è che la morte della politica e, prima ancora, del pensiero.
Interdipendenze e spazio politico europeo
Quando il 23 aprile 1986 esplode il reattore numero 4 della centrale di Chernobyl i venti spirano verso nord. La nube radioattiva attraversa i Paesi Baltici, la Finlandia e la Svezia, per poi ripiegare verso l’Europa centrale e meridionale. Ancora oggi, e chissà per quanto tempo, gli effetti di quella tragedia della modernità – quand’anche rimossi dalla nostra memoria – ricadono oltre i confini degli stati nazionali.
Dovrebbero bastare queste poche righe per comprendere, mentre ancora ci attardiamo nella retorica degli inni nazionali, come i concetti di sovranità e di autodeterminazione siano fuori dal tempo. Eppure, l’interdipendenza non è certo un fenomeno nuovo, le farfalle battevano le proprie ali anche quando l’orizzonte dell’uomo era poco oltre il suo sguardo e non v’era percezione di come i destini del pianeta fossero connessi – per dirla con Edgar Morin – alla “Terra-Patria”[2], ovvero ad una comunità di destino terrestre.
«Sulla terra non esiste l’uomo, bensì esistono gli uomini» scrive Hannah Arendt[3] e con questo è detto tutto. Significa che nell’interdipendenza la sovranità è parola ormai vuota e che ogni nostra scelta è condizionata da un destino comune al quale dovremmo piegare istinti ed interessi. Possiamo immaginare una comunità di individui sovrana a dispetto dei contesti con i quali interagisce?
Immersi nella globalizzazione dovremmo imparare a vivere questo tempo nuovo, dove tutto si tiene e nel quale cruciale diviene la relazione fra la dimensione globale (sovranazionale) e quella territoriale (regionale), oltre i confini che il delirio novecentesco degli stati-nazione ci ha lasciato in eredità.
La lezione della globalizzazione è che la cifra del tempo è andata oltre gli orizzonti che sin qui ci siamo dati e si presenta a noi con nuove coordinate culturali per cui l’apertura al mondo non è un vezzo cosmopolita bensì la condizione umana. Una lezione ancora non compresa perché lo sguardo, anche quello di chi ha l’ambizione di interpretare e cambiare il mondo, si attarda colpevolmente sullo scenario precedente, incapace di mettere mano alla vecchia cassetta degli attrezzi e di uscire dai paradigmi novecenteschi.
Ne è stato un clamoroso esempio la crisi del Kosovo, dalla quale si è usciti pragmaticamente ma senza dare soluzione al carattere contraddittorio assunto dai due principi fondamentali del diritto internazionale, la sovranità territoriale degli Stati e l’autodeterminazione dei popoli, alla base delle istanze dei contendenti ma inconciliabili, tanto è vero che per le Nazioni Unite (e il diritto internazionale) il Kosovo è ancora parte della Serbia, cosa che contrasta la realtà di fatto e il riconoscimento da parte di 115 paesi della sua indipendenza. Impossibile venirne a capo senza un cambio di paradigma.
Allora come oggi, una chiave per affrontare il conflitto fra sovranità e libertà avrebbe potuto essere (ed è) la dimensione europea, un ambito per scartare di lato e andare oltre, sperimentare nuove forme politico istituzionali su scala sovranazionale, macro-regionale e comunitaria, coniugando visione globale, responsabilità e autogoverno. Nuovi spazi di azione politica, una diversa dislocazione dei poteri verso l’Unione Europea e verso le istituzioni regionali, inedite politiche di difesa comune (il superamento degli eserciti nazionali, ad esempio), nuovi contratti sociali espressione dell’estensione dei diritti ma anche delle condizioni specifiche di uno spazio geografico europeo, politiche condivise di prossimità verso i paesi del Mediterraneo e del vicino Oriente.
Era ed è questa la chiave per affrontare la crisi catalana o di altre regioni europee e non solo. Ma proprio l’assenza di un nuovo approccio fa sì che il conflitto venga affrontato contrapponendo sovranità e autodeterminazione, paradigmi fuori dal tempo che portano inevitabilmente a far valere la forza, con l’esito che possiamo immaginare.
Il rilancio del progetto politico europeo – dopo l’incerta e contraddittoria esperienza di questi anni – o verrà dai processi orizzontali fondati sulla conoscenza e sul mutualismo reciproci o semplicemente non ci sarà. Un nuovo processo fondativo all’insegna di un’Europa politica forte di mezzo miliardo di cittadini, di un territorio ricco di biodiversità, di un grande bagaglio culturale che si regge – accanto alle istituzioni europee – su un sistema di comunità autonome in rete fra loro, capace di coltivare coscienze inclusive, espansive ed empatiche, creative e industriose, sempre più consapevoli, idonee per giardinieri, guardiani e amici dell’ecosfera e del prossimo.
Il ritorno dei nazionalismi
E’ paradossale. Nel momento in cui avremmo più bisogno di apertura al mondo e per questo di consapevolezza di sé, di visione globale e per questo di responsabilità, di interagire con la globalizzazione e per questo di autogoverno… assistiamo invece ad una forte chiusura a riccio immaginando di potersi arroccare nello scenario precedente.
Lo spaesamento, lo smarrirsi delle identità novecentesche, l’incapacità di immaginare nuovi scenari, l’incertezza verso il futuro hanno prodotto atomizzazione sociale e solitudine, paura ed aggressività. E con essi il ritorno di nazionalismi mai davvero superati.
Che ciò avvenga dove proprio i nazionalismi hanno disseminato i paesaggi di morte e di dolore dovrebbe farci riflettere su quanto non siamo capaci di elaborare il Novecento e le sue tragedie. Riappaiono con una naturalezza inquietante – nella simbologia come nell’immaginario collettivo – le forme del pregiudizio e della discriminazione razziale. Che una politica fondata sulla ricerca del consenso cerca di cavalcare, sfoderando vecchi armamentari come quello dello “scontro di civiltà”.
E’ proprio l’incertezza del futuro connessa alla globalizzazione a creare l’humus favorevole che tende a trasformare i territori in ingorghi identitari e le istanze di autogoverno in cortocircuiti nei quali prosperano le forme più acute di quel male che Lidia Campagnano, in un suo splendido saggio di qualche anno fa, definisce “Nostalgia di un giardino” e che ben descrive la psiche del miliziano nazionalista nella sua moderna ricerca di legittimazione.
«Anche la storia – scrive la Campagnano – come l’orizzonte più ampio che la politica offre al bisogno umano di andare oltre la limitatezza individuale, è una promessa di estensione. La storia dice: collocandoti nel mio flusso rivivranno in te le generazioni passate nei loro tratti (o gesta) essenziali, cioè tramandati, ma anche quelle future che da te prenderanno i tratti essenziali. Traduzione laica della Bibbia, la storia ripete la promessa di Dio ad ogni patriarca: sarai carico di anni e di figli, da te uscirà un popolo e tu sei uscito dal mio popolo. La storia è insieme promessa di eredità e promessa di futuro, cioè promessa di eternità»[4].
Non a caso i nazionalismi si nutrono di narrazioni epiche e di rituali esoterici che ritroviamo nelle argomentazioni della post-politica, un mix inquietante di modernità e tradizione. Tratti di postmodernità che incontriamo indifferentemente nelle lande desolate dei tanti dopoguerra come nei borghi spaesati dello sviluppo senza qualità, nei luoghi dello spaesamento «dove gli umori diventano rancore e il rancore progetto politico»[5].
Il federalismo e la controriforma
Uno degli antidoti a questo veleno avrebbe potuto essere il federalismo, nel suo sguardo capace di ricongiungere il globale e il locale, nell’assumere come visione “il potere di tutti” e la responsabilità di ognuno, nel suo proporsi sovranazionale e territoriale. Ma è stato prima confinato come eresia, successivamente ridotto a decentramento amministrativo, infine reso inservibile dalla mistificazione padana più affine al separatismo (e a guardar bene al centralismo) che alla «dottrina sociale di carattere globale fondata sul concetto di autonomia»[6].
Anche per questo la cultura federalistica in Italia non è mai divenuta pensiero diffuso e, sul piano istituzionale, non si è mai andati oltre ad un regionalismo sgangherato che – se escludiamo la specialità del Trentino Alto Adige/Südtirol – è rimasto ben lontano dall’aver messo i territori nelle condizioni di autogovernarsi realmente.
Certo, sotto la pressione della manifesta incapacità della dimensione nazionale di dare risposte all’altezza delle sfide della globalizzazione e della necessità che i territori divenissero protagonisti nella gestione delle proprie risorse (e contestualmente alla stagione che espresse il livello più alto di progettazione europea con Romano Prodi presidente della Commissione), si era sviluppato in Italia un processo riformatore che aveva portato a riconoscere le Regioni come una delle articolazioni della Repubblica Italiana al pari dello Stato[7] e ad uno spostamento di competenze verso il basso, che pure aveva trovato conferma nel successivo referendum popolare (7 ottobre 2001).
Quella riforma costituzionale introduceva anche il “federalismo fiscale”, aspetto decisivo per poter perseguire quanto veniva previsto sul piano del trasferimento delle competenze ma a cui non fu mai data attuazione. La riforma rimase spuntata ed il processo si arenò.
Probabilmente non è stata la sola ragione. L’autogoverno non s’inventa da un giorno all’altro, è un processo complesso che richiede – fuori e dentro le istituzioni – di essere all’altezza tanto nella progettualità politico amministrativa, che nella qualità delle classi dirigenti (non solo della politica), come infine nella coscienza popolare.
Autogoverno significa in primo luogo assunzione di responsabilità, partecipazione diffusa, sperimentazione originale, auto-pensiero. Tradotto in azione politica significa capacità di riconoscimento delle proprie risorse materiali ed immateriali come delle criticità, esercizio delle prerogative, attivazione degli attori del territorio, educazione permanente, superamento dei particolarismi corporativi… Uno scenario che non corrisponde a questo tempo dilaniato dai troppi giardini.
E’ qui, prima ancora che sul piano legislativo, che il processo riformatore in Italia si è prima fermato e poi involuto. Terreno sul quale negli ultimi anni anche una consolidata esperienza di autogoverno come quella sviluppatasi nelle autonomie speciali del Trentino e dell’Alto Adige/Südtirol non è stata all’altezza, venendo meno la consapevolezza dell’autonomia come processo dinamico, ovvero come pratica quotidiana e diffusa di autogoverno.
In questo quadro vanno considerate le riforme sottoposte a referendum costituzionale ed in particolare la sterilizzazione del Titolo V attraverso il ripristino della sovranità centrale rispetto alle materie considerate di valenza strategica. Disconoscendo di fatto quel cruciale passaggio costituzionale laddove le Regioni venivano indicate sullo stesso piano dello Stato.
Sulla stessa lunghezza d’onda la sciagurata ipotesi dell’accorpamento delle Regioni presentata alla Camera e al Senato da due esponenti del PD (Roberto Morassut e Raffaele Ranucci) e fatta propria attraverso uno specifico ordine del giorno da parte del Governo e del Parlamento. Un semplice atto di indirizzo, ma indicatore di una tendenza accentratrice che rappresentava la vera spina dorsale della Riforma costituzionale approvata dal Parlamento e poi sottoposta a referendum.
Una controriforma che è stata bocciata in maniera netta nel referendum del 4 dicembre 2016 e che, malgrado ciò, ha prodotto uno scasso istituzionale (pensiamo alla vicenda delle Province), a testimoniare che una materia tanto complessa e delicata non poteva essere affrontata a colpi di maggioranza.
Il Trentino e il Terzo Statuto di Autonomia
Quello di cui avrebbero bisogno i territori è una nuova capacità di progettazione politica ed istituzionale tutt’altro che banale: quella di sapersi ripensare, tanto nella capacità di valorizzare la propria unicità quanto nel sapersi relazionare con lo spazio-mondo, nello sguardo lungo sui problemi che investono il proprio tessuto sociale quanto nell’intessere rapporti attraverso le varie forme di cooperazione fra comunità.
E’ questa la vera sfida del “Terzo Statuto di Autonomia”. Quello di cui parliamo è un cambio di approccio nella lettura delle contraddizioni come nella capacità di intessere relazioni che ci aiutino a comprendere ed affrontare le sfide del presente, in una dimensione geopolitica nuova nella quale costruire alleanze fra territori diversamente connessi fra loro.
Sbaglieremmo ad immaginare il “terzo statuto” come ristrutturazione delle nostre prerogative autonomistiche con lo Stato italiano. Se di questo si trattasse sarebbe sufficiente un aggiornamento di quello esistente, come qualcuno aveva proposto in relazione alle modifiche costituzionali introdotte dal Parlamento, poi bocciate in sede di consultazione referendaria.
Ma quando negli anni scorsi abbiamo proposto di avviare il confronto sul “terzo statuto” lo abbiamo fatto proprio a partire dalla consapevolezza che il contesto della nostra autonomia era profondamente cambiato. Non una risposta contingente al neo-centralismo, ma un nuovo orizzonte, quello europeo.
Se infatti il primo statuto di autonomia aveva come obiettivo il riconoscimento (grazie anche all’ancoraggio internazionale) della specialità di una terra complessa, di confine, abitata da popolazioni di lingua diversa, segnata nella sua parte meridionale dall’emigrazione, dalla guerra e dalla povertà, violentata nella sua parte sudtirolese dalla pulizia etnica e dalla italianizzazione forzata operata dal fascismo, soggetta nella sua storia novecentesca all’Impero asburgico, al Regno d’Italia, all’amministrazione militare della Germania nazista e infine alla Repubblica italiana; se il secondo statuto è stato all’insegna dell’autogoverno, in un processo dinamico di contrattazione con lo Stato italiano che corrispondeva alla nascita di due comunità – trentina e sudtirolese – progressivamente dotate di maggiori competenze e pertanto di autonomia integrale; il terzo statuto avrebbe dovuto avvenire all’insegna dell’Europa, un cambio di simmetria verso lo stato italiano, verso i contesti macro regionali che già oggi tendono a delineare inediti assetti geopolitici, e infine verso quel progetto politico europeo dal quale già nel presente promanano gran parte delle linee di indirizzo legislativo degli stati nazionali e delle nostre stesse autonomie.
Il secondo statuto, fra autonomia integrale e perdita di senso
Il passaggio fra il primo e il secondo statuto di autonomia ha rappresentato un momento chiave per certi versi ancora non elaborato. Molto spesso infatti il confronto sul futuro della Regione si incaglia proprio qui, in questo passaggio di competenze che delinea la nascita di due distinte comunità autonome, accomunate da una istituzione controversa e al tempo stesso intoccabile per effetto degli accordi di Parigi e del patto De Gasperi – Gruber.
E’ il 1972. Il mondo è ancora immerso nella guerra fredda che riempirà gli arsenali di migliaia di testate nucleari, nelle guerre “regionali” per la conquista o la difesa delle rispettive aree d’influenza, nella clamorosa denuncia del Club di Roma sulla sostenibilità e sui limiti dello sviluppo, nella fine del vecchio colonialismo e l’irrompere sulla scena globale dei “paesi in via di sviluppo” e del “non allineamento”, nell’ennesimo confronto fra Bobby Fischer e Boris Spasskij in un mondiale di scacchi denso di ben altre significazioni.
In Italia sono gli anni delle grandi riforme sociali e civili, dallo Statuto dei Lavoratori alla legge sulla psichiatria, dalla legge sullo stato di famiglia a quella sul divorzio. Entra in vigore la legge sull’obiezione di coscienza e il film di Elio Petri “La classe operaia va in paradiso” vince il festival di Cannes.
In Trentino ancora si emigra per mancanza di lavoro e alcune valli si spopolano, i fondovalle sono avvolti dai fumi di una industrializzazione senza qualità, alla Michelin prende il via una vertenza sindacale che farà storia (malgrado oggi sia stata anche materialmente cancellata), l’agricoltura sta prendendo la strada redditizia ma impoverente della monocoltura… Gli effetti delle norme di attuazione del “pacchetto” si vedranno solo qualche anno più tardi, quando le competenze e le risorse finanziarie faranno del Trentino e dell’Alto Adige – Südtirol altrettanti laboratori avanzati di autogoverno.
Ci vorranno per la verità anche capacità di sperimentazione originale, tanto negli strumenti di pianificazione territoriale come sul piano politico, ma certamente è con l’avvio del secondo statuto che si mettono le basi della svolta. Sarà un processo graduale e talvolta contraddittorio che avrà nei piani urbanistici, nella risposta alla crisi industriale della metà degli anni ’80, nel ripensamento seguito alla tragedia di Stava e nella convulsa fine della “prima repubblica” – sullo sfondo della caduta del muro e di Tangentopoli – i suoi passaggi cruciali.
Da allora sono passati più di quarant’anni ed il mondo è cambiato. Sono cambiate le geografie (nella sola Europa sono scomparsi tre stati e ne sono apparsi ventuno di nuovi[8]), sono cambiati gli assetti geopolitici (si è conclusa una storia, quella della contrapposizione fra blocchi), il pianeta è diventato un piccolo villaggio in connessione, la rivoluzione informatica ha cambiato il nostro modo di vivere.
L’esperienza di autogoverno di questa piccola porzione di Europa a cavallo fra il Mediterraneo e la Mitteleuropa è stata importante ma non per questo sufficiente ad interpretare un cambio di paradigma come quello qui descritto.
Ed è forse proprio attorno all’idea dell’autonomia come acquisizione permanente e come processo culturale, che abbiamo scontato anche in Trentino negli oltre quarant’anni di esercizio del Secondo statuto le maggiori contraddizioni. Abbiamo cioè immaginato di poter vivere di rendita, tanto sul piano finanziario quanto nella capacità di abitare l’autonomia.
Ma mentre sul primo aspetto gran parte della partita si è giocata nella negoziazione fra i poteri, certamente influenzata da una crisi economica diventata strutturale e dal clima culturale del paese sempre più avverso nei confronti delle autonomie locali (e dei loro presunti o reali privilegi), è sul secondo aspetto, quello della qualità dell’autogoverno, che abbiamo conosciuto le sperimentazioni più avanzate come anche le maggiori difficoltà.
Lo sfarinamento del blocco sociale dell’anomalia
L’autonomia non è un meccanismo di governo a compartimenti stagni. Richiede che una comunità, pur in presenza di approcci, sensibilità ed interessi diversi, sia all’altezza della sfida e dei cambiamenti, capace dunque di rinnovarsi nell’economia come nella finanza, nelle professioni come nella gestione del welfare, nel rapporto con l’ambiente come nella pianificazione del territorio, nella formazione come nell’innovazione culturale, nelle istituzioni come nella società civile.
E malgrado il Trentino si sia dimostrato negli anni della lunga notte della Repubblica[9], sul piano politico come su quello sociale, un terreno avanzato di sperimentazione sociale che l’ha reso protagonista di quella che abbiamo definito “anomalia”, dobbiamo sapere che abbiamo fatto poco per consolidare l’autonomia nella coscienza e nei comportamenti delle persone, che ne hanno progressivamente smarrito il senso. Mortificandola nella sua riduzione a privilegio finanziario o a fortunata casualità.
Così incontriamo un altro paradosso. Che mentre la nostra specialità, con l’acquisizione grazie all’Accordo di Milano di nuove competenze, raggiunge una dimensione pressoché integrale, la comunità trentina – adagiata su condizioni per certi versi irripetibili – non sembra essere consapevole che il venir meno del suo carattere dinamico ne determina la fragilità e financo la sua messa in discussione.
L’acquisizione di nuove competenze non corrisponde affatto a maggiori disponibilità finanziarie, anzi il contrario. A fronte del permanere sul territorio del 90% delle entrate fiscali, la devoluzione da parte dello Stato centrale di nuove competenze significa l’assunzione di una spesa prima a carico dello Stato. E, aspetto scarsamente considerato, l’assunzione di un grado maggiore di responsabilità sul piano delle classi dirigenti locali.
E se la crisi della politica non ha investito e non investe solo i partiti ma l’insieme dei corpi intermedi, questa ha riguardato l’insieme dei fattori che erano alla base di questa anomalia, a cominciare dai movimenti e istituzioni della cooperazione, del risparmio e del mutualismo, dal mondo del lavoro all’associazionismo, dalle strutture religiose agli ambiti della formazione.
Nel prologo trentino del “Viaggio nella solitudine della politica” è emerso proprio questo, il progressivo sfarinamento del blocco sociale che ha prodotto l’anomalia trentina. E che l’attuale classe dirigente nemmeno riesce a percepire.
La necessità del Terzo Statuto non è dunque “soltanto” una risposta al cambiamento del contesto e la nuova centralità dell’Europa, ma si configura anche come una sorta di movimento di riappropriazione, un nuovo inizio che o saprà coinvolgere l’intera comunità o non sarà. Riguarda la comunità trentina in tutte le sue forme organizzate come ciascun individuo. Non per difendere una condizione raggiunta, ma per stare responsabilmente in un processo glocale nel quale possiamo avere qualcosa da dare e molto da ricevere.
Un territorio crocevia, fra Sud e Nord, fra Ovest ed Est
Si è usi pensare a questa nostra terra come ad un luogo di incontro fra nord e sud, mittel Europa e Mediterraneo. A guardar bene, per storia e configurazione geografica, la nostra regione ha rappresentato qualcosa di più che una linea di comunicazione fra i versanti meridionale e settentrionale delle Alpi. Un crocevia, si è detto.
Le vie della conoscenza e dei flussi culturali, quelle dei commerci come delle migrazioni, hanno seguito il percorso dei fondovalle e dei fiumi e attraverso i passi, altre valli e fiumi fino ai mari. L’origine stessa dei primi insediamenti in questa terra ci raccontano di migrazioni che venivano prevalentemente da Oriente (Caucaso) attraverso il Mediterraneo (mare di mari come lo definiva Fernand Braudel[10]) e il Danubio. Senza andare troppo indietro nel tempo è bene ricordare come la stessa appartenenza asburgica rendeva famigliari i contatti all’interno di quell’Impero che si configurava come una piccola Europa. E, come “il fiume della melodia”[11], attraversava da occidente ad oriente il vecchio continente, favorendo così, in tempo di pace come in quello di guerra, relazioni profonde. Basterebbe frugare nelle nostre biblioteche per averne testimonianza, laddove le terme di Ilida (Sarajevo) venivano affiancate a quelle di Roncegno. O negli archivi delle parrocchie o, ancora, nei vecchi cimiteri per scoprire assonanze e origini familiari che ci parlano del crocevia di cui oggi abbiamo smarrito la significanza.
Tant’è che diamo importanza alla Macroregione alpina che però, così come è stata immaginata, vede una netta prevalenza delle aree di pianura e metropolitane su quelle di montagna con il rischio di una nuova marginalizzazione del territorio alpino, ma ci disinteressiamo di quella Adriatico Ionica e Danubiana (già operative) delle quali saremmo parte a pieno titolo grazie ai nostri sistemi fluviali e che potrebbero rappresentare l’incipit di relazioni virtuose sotto ogni profilo. Un crocevia europeo che dobbiamo vivere come una risorsa per il futuro.
Nel far questo, accanto ad una visione lunga, dovremmo anche aver consapevolezza che la qualità richiede talvolta anche la quantità. Un territorio di poco più di mezzo milione di abitanti non è in grado da solo di avere i numeri per interagire con alcune problematiche che invece richiedono di fare sistema con altri territori. Un esempio per tutti è quello della sanità. Chi è disponibile ad usufruire di servizi che richiedono particolare specializzazione laddove gli interventi si contano annualmente sulle dita di una mano? E quali sono gli specialisti che decidono di venire in una terra dove le opportunità di sviluppare le proprie capacità sono ridotte?
Si pone dunque la necessità di fare sistema con i territori limitrofi (penso in particolare al Sud Tirolo e alla Provincia di Belluno) assumendo indirizzi politici ma anche scelte amministrative in grado di delineare ambiti di autogoverno sovra-regionali come nel caso della “Regione Dolomiti”, ridisegnando così gli assetti regionali come quelli europei.
E’ questo l’orizzonte che dovrebbe fare da sfondo alla redazione del terzo statuto. Come regolare dunque una comunità autonoma nel tempo dell’Europa?
Capiamo perfettamente che senza un rilancio del progetto politico europeo questa può apparire una fuga in avanti, ma se aspettiamo che l’Europa venga rilanciata dagli stessi che l’hanno deprivata dello spirito di Ventotene[12] dovremo semplicemente prendere atto della sua (e nostra) sconfitta.
Quello spirito federalista non può che essere rilanciato dal protagonismo dei territori, dalla loro capacità di costruire reti orizzontali a geografia variabile, dando corpo a simmetrie politico-amministrative esterne ed interne ai confini degli stati nazionali.
L’autonomia integrale che fin qui si è costruita rappresenta pur con i suoi limiti una condizione di partenza che può aiutarci a sperimentare forme inedite di sussidiarietà, investendo una parte delle nostre risorse in progettualità condivise in ambito europeo e mediterraneo. Mettendo in campo le unicità del territorio, le competenze, la ricerca (e le loro forme) i cui ritorni potrebbero fra l’altro contribuire, anche sul piano finanziario, a nuovi e più avanzati livelli di sostenibilità.
Per questo serve un cambio di passo e un maggiore coinvolgimento della nostra comunità nel suo insieme per obiettivi condivisi da perseguire con l’attivazione di strumenti finanziari riconducibili al territorio e ai suoi abitanti, così come immaginato nell’attivazione del fondo strategico regionale in occasione della Legge finanziaria regionale del 2013.
Consapevoli che nell’interdipendenza la conoscenza è parte integrante del capitale di un territorio. Abbiamo già potuto renderci conto come gli investimenti in cultura, in conoscenza e in relazioni internazionali (talvolta contestati come sprechi), si siano rivelati decisivi nella capacità d’attrazione di questa terra. Analogamente, pensiamo sia il tempo di investire in cittadinanza europea e mediterranea, che poi significa investire in noi stessi.
Dando carattere non casuale alle reti relazionali, sapendo che dell’esito di queste simmetrie non beneficerà soltanto un territorio sul piano della visibilità ma tutti i suoi attori, istituzionali e non, in forma pubblica, associata o individuale, permettendoci di guardare in forme nuove al nostro futuro.
[1]Michel Serres. Il mancino zoppo. Bollati Boringhieri, 2016
[2]Edgar Morin, Terra-Patria. Raffaello Cortina Editore, 1994
[3]Hannah Arendt, Fra passato e futuro. Garzanti, 1991
[4]Lidia Campagnano, Gli anni del disordine. La Tartaruga edizioni, 1996
[5]M.Cereghini – M.Nardelli, Darsi il tempo. Emi, 2008
[6]Bobbio, Matteucci, Pasquino, Dizionario di politica. Utet, 1983
[7]«La repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato» Costituzione Italiana, Titolo V, articolo 114
[8]Si tratta dei seguenti paesi: Armenia, Azerbajan, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Georgia, Lettonia, Lituania, Macedonia, Moldavia, Montenegro, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Ukrajna, cui potremmo aggiungere Kosovo, Abkazia, Ossezia del sud e Transnistria, paesi non riconosciuti dalle Nazioni Unite ma esistenti di fatto.
[9]Giuseppe Dossetti, Sentinella, quanto resta della notte? Edizioni Lavoro, 1994
[10]Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Einaudi, 1986
[11]Claudio Magris, Danubio. Garzanti, 1986
[12]«Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani». Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Il Manifesto di Ventotene.