Terzo statuto, il fallimento della Convenzione
23 Giugno 2017Cassandra
13 Luglio 20173. La scissione più grande
Dire che alla conta finale il PD si è affermato nei comuni maggiori dove si andava a votare, oltre a coprire di ridicolo chi fa simili affermazioni, vuol dire vedere solo quel che si vuol vedere. Basterebbe scorrere i dati comune per comune per comprendere l’esito di un voto che va ben oltre il suo riscontro oggettivo3. La sconfitta del PD e del centrosinistra incardinato attorno al PD è tale che richiederebbe una riflessione sulle scelte di fondo della sua classe dirigente. Riflessione che si sarebbe dovuta fare già nei mesi scorsi perché i segnali anche sul piano elettorale c’erano da tempo. Ma una leadership che si gioca tutto sul referendum costituzionale e dalla cui netta sconfitta non ne trae il minimo insegnamento dimostra di aver smarrito anche il minimo senso della realtà.
C’è stato il congresso nazionale, mi si risponde. E’ vero, ma la scissione con più della metà degli iscritti del 2008 si era già consumata, lo stesso si può dire con una parte rilevante del gruppo dirigente che questo partito aveva contribuito a costruire. Così come con una parte significativa del suo elettorato. Se esaminiamo infatti lo storico del voto alle elezioni amministrative di Genova i dati sono impressionanti4. E poi che razza di congresso è quello dove la discussione congressuale nei circoli si svolge in un quarto d’ora dopo l’illustrazione delle mozioni? Già, dimenticavo che nella post politica il dibattito congressuale si svolge in televisione o sui social media, sono loro a decidere l’orientamento congressuale. Del resto, sempre per rimanere a Genova, il mutamento genetico del più grande partito della sinistra è facilmente riscontrabile nel voto dei quartieri, laddove quelli popolari a più forte tradizione di sinistra hanno tutti o quasi votato a maggioranza per il candidato sindaco del centrodestra. Che vince le elezioni malgrado l’impresentabilità della sua classe dirigente. Come non vedere che la rottura è profonda ed è insieme politica, culturale e di credibilità delle persone?
4. Un’indicazione politica in senso pieno
Governare le città e i territori non è cosa facile. Sarebbe fin troppo semplice puntare il dito accusatore verso il neocentralismo che ha portato a continui tagli della finanza locale. Malgrado la sconfitta referendaria, l’assalto al Titolo V della Costituzione non si è mai arrestato, attraverso scelte che hanno sottratto competenze e risorse agli enti locali e alle Regioni. So bene che i primi a non volere assumere competenze (e responsabilità) nella gestione dei servizi e del territorio sono proprio i governi locali, ma questo investe un altro ordine di problemi, la qualità delle classi dirigenti. E che nella crisi della politica le Regioni sono talvolta diventate carrozzoni in mano a cacicchi arroganti e ignoranti, incapaci di autogoverno responsabile. Ma questa non può essere una buona ragione per demolire quel po’ di federalismo che a fatica e fra mille contraddizioni si era costruito.
Per governare bene, oltre alle risorse, servono infatti idee, fantasia, relazioni, conoscenza del territorio, valorizzazione delle persone e dei loro saperi… Oltre al coraggio di dire di no alle lobby e di non seguire i poteri forti che comunque condizionano la vita economica e sociale di una comunità. Poi non è scritto da nessuna parte che a governare bene per forza i risultati elettorali debbano essere positivi, perché al ben governare deve corrispondere la crescita culturale della comunità, il suo grado di partecipazione e di consapevolezza.
Ciò detto, la sconfitta di chi era al governo delle città emersa con nettezza in questa tornata elettorale (16 amministrazioni su 25 Comuni capoluogo di Provincia hanno cambiato segno politico) ha certamente a che fare con questo insieme di difficoltà, ma non solo. Penso infatti che il voto misuri sempre un orientamento politico-culturale che ha a che fare con il vento che soffia in un paese e, considerata l’interdipendenza, in Europa e nel mondo. E’ il vento della paura, del nazionalismo del “prima noi”, dell’esclusione. Un vento che, in assenza di pensieri forti in grado di contrastarlo, condiziona tutta la politica (Macron sui “migranti economici” insegna). Ed è pertanto un’indicazione politica a tutto tondo, a prescindere dai sistemi elettorali che ne possono attenuare o meno gli esiti.
5. I segni del tempo
Che corrisponda o meno al politicamente corretto non importa, ma i nodi che sono stati posti nel dibattito elettorale dalla destra rappresentano una risposta (tragica quanto si vuole) alle grandi questioni di questo tempo. Mi spingo a dire che, paradossalmente, la risposta più nitida viene dai populismi, interpreti veraci della fine dell’umanesimo. Sul fronte opposto, fermo nel migliore dei casi al keynesismo, manca invece capacità interpretativa e visione di futuro.
Sento dire da un esponente del governo italiano che la siccità non è più solo un’emergenza ma l’esito di cambiamenti climatici di natura strutturale. Ben venga una tale consapevolezza, ma il ministro Gian Luca Galletti è al dicastero dell’ambiente dal 2014 e in questi tre anni (ed altri prima di lui) avrebbe potuto agire di conseguenza: tanto per cominciare una grande iniziativa per il riassetto delle reti idriche e per il risparmio di questa risorsa (la cui gestione è stata spesso privatizzata, malgrado il referendum), affidandola agli enti locali e vincolandola a precisi riscontri. Lo stesso potremmo dire per un diverso modello agricolo capace di tener conto dei cambiamenti climatici, con la ristrutturazione dei sistemi di irrigazione che facilitano la dispersione ma anche con la diversificazione produttiva e la valorizzazione delle biodiversità. Oppure – per rimanere su questo terreno – proponendo un diverso modello turistico fondato sull’unicità dei territori invece di proseguire sulla strada che riduce la montagna o il mare a parchi gioco che omologano e banalizzano l’offerta turistica e che già oggi mostrano tutta la loro insostenibilità (penso ad esempio al consumo dell’acqua per l’innevamento artificiale).
Ma un analogo ragionamento lo si potrebbe fare per l’immigrazione rispetto alla quale l’approccio continua ad essere emergenziale e incapace di sbarrare la strada alla criminalità organizzata. Se invece di sostenere interventi militari come è accaduto in Libia, avessimo utilizzato queste risorse per favorire programmi endogeni di autosviluppo, non ci troveremmo in questa situazione.
O ancora. Sento parlare di ripresa economica, semplicemente inseguendo dati che non riescono a fotografare più niente. Siamo ancora lì a sperare nel cambio della congiuntura quando avremmo dovuto da tempo imparare che la crisi dell’economia è strutturale ed investe in particolare la sua progressiva finanziarizzazione. O forse pensiamo che la bolla del 2007/2008 si sia sgonfiata? Andatevi a leggere i dati relativi all’ammontare globale dei titoli derivati…
Solo qualche esempio per dire che la crisi della politica è di sguardo, richiede nuove chiavi per interpretare i segni del tempo e nuove visioni di futuro. Quello che abbiamo non è il migliore dei mondi possibile e non possiamo limitarci a pensare che basta ricorrere alla Costituzione Italiana per trovare risposta alle grandi questioni del nostro tempo. Occorre un cambio di paradigma, anche per l’articolo 1 della Costituzione, ammesso e non concesso che il nostro riferimento debba continuare ad essere una dimensione fuori scala come quella nazionale.
6. Una sconfitta che viene da lontano
Voglio dire, in altre parole, che nello smarrimento di questi giorni misuriamo la cifra di una sconfitta che prescinde largamente da questa tornata di elezioni amministrative. Che pertanto non riguarda solo il PD o la compagine di centrosinistra al governo. O ciò che rimane della sinistra. Investe la politica in senso lato, ci riguarda tutti e chiama in causa la nostra capacità di dare risposte ad un contesto nel quale in gioco c’è il destino dell’umanità. Perché questa è la dimensione di riferimento, in una continua connessione fra il globale e il locale. Andando oltre «il vecchio umanesimo, narciso e povero di mondo tanto quanto la storia» come scrive Michel Serres5, per rompere le simmetrie di un tempo che non c’è più, inventando una pagina nuova nel cammino dell’umanità capace di riconciliare l’uomo con se stesso e con la natura.
Non c’è dunque un errore da correggere, c’è qualcosa di fondo che richiede tempi e spazi diversi da quelli incombenti dell’agenda politica. Capisco perfettamente l’obiezione che viene da chi mi dice che nel frattempo c’è una vita reale che richiede risposte puntuali. Ma tali risposte, in assenza di un cambio profondo dei nostri paradigmi, continueranno ad essere nel solco delle cose che ci hanno portati sin qui, che non funzionano più e che ci portano ad alzare le spalle quotidianamente di fronte alle tragedie che si consumano nelle tante facce della guerra mondiale in corso che – nonostante Papa Francesco – preferiamo non vedere.
7. La movimentazione e il cambio di paradigma
Potrei fermarmi qui. Ma dopo il voto amministrativo vedo in giro una grande movimentazione politica. Il Movimento democratici e progressisti, la Sinistra Italiana, “Possibile”, l’“Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”, il Campo progressista di Giuliano Pisapia… è un susseguirsi di soggettività politiche che nascono più o meno in relazione a delle figure di riferimento. E anche nel PD le minoranze e qualcuno nella stessa maggioranza renziana sembra intenzionato a riaprire il confronto e questo nonostante i colonnelli cerchino di chiuderlo seccamente dicendo che il candidato premier c’è già e si chiama Matteo Renzi.
In tutta questa movimentazione, mi permetto di dire di prevalente stampo politicista, cioè estranea ai processi sociali, manca però a mio avviso l’unica cosa che la potrebbe rendere interessante, il cambio di paradigma. Il che richiederebbe uno spostamento di prospettiva di non facile realizzazione in tempi brevi, sia per la radicale messa in discussione dei fondamenti positivistici dai quali è mutuato gran parte del pensiero politico moderno, sia per la difficoltà di ridisegnare un nuovo progetto sociale.
Sensibilità culturali pur rintracciabili nelle esperienze più avanzate di sperimentazione sociale e civile, ma in buona sostanza ancora prive di quella sintesi politica che qualcuno di noi aveva provato a rintracciare nella nascita del Partito Democratico.
E’ questa del resto la ragione di fondo dell’esserci messi in cammino, in una solitudine politica che nell’incontro con altre solitudini prova ad inverare – nel confronto fra esperienze e pensieri originali – un nuovo disegno capace di indicarci qualche via di uscita dal XX secolo. Solitudini da rintracciare ovunque, dentro e fuori i corpi intermedi, con il senso di realtà e del limite con cui cerchiamo di accompagnare il nostro viaggio6.
1Vedi rapporto Demos 2016 – http://www.demos.it/a01341.php
2 Mi riferisco ai giovani genovesi che negli anni ’60 diedero il via alle manifestazioni che impedirono lo svolgersi del congresso nazionale del MSI e portarono alla caduta del governo Tambroni, nato con l’appoggio esterno dei neofascisti.
3 http://www.repubblica.it/static/speciale/2017/elezioni/comunali/lista_comuni.html
4Nell’impossibilità di un raffronto a livello nazionale, è comunque interessante raffrontare lo storico dei voti alle elezioni comunali di Genova. Il PD in queste elezioni ha preso 43.156 voti. Erano 55.137 nel 2012, 89.337 nel 2007 (come Ulivo), 102.944 nel 2002 (come DS), per non dire dei 144.340 nel 1990 (come PDS), dei 186.390 del 1985 (come PCI) e infine dei 239.750 del 1976 (sempre come PCI).
5Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati Boringhieri, 2016
6http://www.zerosifr.eu/
6 Comments
Ti ringrazio per la condivisione caro Michele.
C’è molto su cui riflettere!
Un saluto,
Giacomo
Ciao Michele
Grazie di questa riflessione che condivido e che richiederebbe un tempo di approfondimento condiviso ben più consistente.
Per questo mi piacerebbe che tu organizzassi in questo periodo estivo un incontro di riflessione informale tra tutte le persone che ti stanno attorno e che hanno a cuore il futuro democratico dell’Italia (ma, alla fine, dell’Europa). Credo che metterebbe insieme un bel gruppetto di persone e magari potrebbe nascere da ciò qualcosa di incisivo …
Mi pare che nessuno meglio di te potrebbe fare in Trentino da catalizzatore delle migliori energie, e sono convinto che di questo ci sia veramente bisogno oggi.
Se ti interessa possiamo parlarne
Grazie intanto e un cordiale saluto
stefano
Ciao Michele, l’atto di pensare, spesso, trova terreno fertile nella solitudine.
La politica, oggigiorno, è fondamentalmente quello che tu chiami “movimentazione” e una delle conseguenze di ciò è il venire meno della riflessione sugli accadimenti e ancora meno l’elaborazione di qualche prospettiva.
In questo frangente rimane, comunque, importante che il tuo intervento inviti a acquisire un’utile e necessaria consapevolezza dello stato d’arte.
Grazie.
Adel
Ciao Michele,
è sempre bello e interessante leggerti. Grazie di queste riflessioni.
Lo spirito del referendum del 2 giugno 1946, quello che fece del Trentino la Regione più repubblicana d’Italia, può tornare a soffiare nelle valli alpine, colpite come ogni altra parte dello Stivale dal crollo della partecipazione popolare alle contese elettorali? La risposta è affermativa, a condizione che il costituendo campo progressista assuma alle nostre latitudini i connotati di un’anomalia, come storicamente è sempre stato; nei mesi di ferro e fuoco della dominazione nazista i resistenti trentini non accettarono di intrupparsi in nessuna delle sigle politiche cielleniste, seguendo un percorso autenticamente federalista, e tutta la storia dei partiti politici che hanno avuto in Trentino responsabilità di governo ci parla di estraneità alle logiche correntizie dominanti il quadro nazionale. Di ciò si è parlato in un incontro a Trento nel giorno conclusivo delle festività vigiliane fra esponenti della sinistra trentina, con la presenza dell’on. Arturo Scotto promotore con Rossi e Speranza del gruppo parlamentare “art,1 movimento progressista”, nella ferma convinzione che ci troviamo di fronte ad un tale cambiamento di paradigma politico sociale tale da dover fare ricorso ai principi fondamentali. Solo grazie ad una stretta collaborazione fra le forze moderate di centro e la sinistra si potrà sfuggire alla deriva che in campo nazionale sta portando alla disgregazione del quadro politico; da ciò la necessità di agire in fretta per costituire il soggetto politico federalista che avrebbe dovuto nascere dieci anni fa, quando la stagione dell’ulivo già mostrava i suoi limiti e il Partito democratico stentava a mettere radici in Trentino. Marginalizzate nel centrosinistra le componenti liberalsocialista ed ecologiste, abbandonata dal cattolicesimo politico la tradizione dossettiana, il risultato non poteva che essere quello che abbiamo davanti oggi: il serio pericolo della fine dell’anomalia trentina, l’omologazione al disastrato quadro nazionale. Un rinnovato impegno democratico su un programma in pochi essenziali punti (lavoro, accoglienza, ricerca, cultura) un passo indietro dei protagonisti delle passate stagioni, sono le precondizioni per un appello agli elettori perché ritornino alle urne, sempre più disertate nelle recenti consultazioni.
Vincenzo Calì
Riconfermo l’accordo con quanto hai scritto.
Dopo anni di contrasti come vedi siamo riusciti a capirci e siamo arrivati a pensarla allo stesso modo.
Una piccola precisazione, quando dici che le cose scritte sono una base per quanti nel PD intendono riflettere, rivolgiti anche a quanti fuori dal PD, che navigano a vista o che sono ancora agganciati a vecchi paradigmi.
Sono tempi che se si vuole parlare di unità, questa può iniziare se si affrontano le comuni deficienze (nel senso di deficere … ma non solo!!)
Ciao Michele.
Un abbraccio.
Emilio