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Per la parte restante invece la Costituzione è stata pensata come modificabile, per essere coerente con l’evoluzione della storia e con le libertà di scelta delle generazioni che si succedono. Di questo si tratta nella revisione del sistema parlamentare e degli assetti istituzionali, particolarmente, nei rapporti tra le componenti coessenziali della Repubblica: Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni.

Allora, se manca “la larga intesa” tra i partiti, che sono i padroni della dialettica parlamentare, questo atto di sovranità (modificare la Costituzione), viene demandato direttamente al popolo (art.1 Cost.). Il referendum è però anche un potente strumento di autorappresentazione della comunità nazionale/locale, nel quale convergono con pari ammissibilità tutte ed anche divergenti ragioni.

Il metodo democratico, essendo un metodo procedurale, non seleziona i motivi del voto, si limita a registrare la volontà della maggioranza che assume la forma della democratica volontà popolare, assegnando così ad ogni elettore il privilegio di poter contare, al di fuori di qualsiasi appartenenza, nelle scelte di fondo sull’assetto dei poteri.

La riforma mancata.

Comunque questo referendum è, a ben vedere, un limitato inserto nel tessuto costituzionale, dato che proprio le parti della Costituzione non più al passo col corrente millennio rimangono immutate. La revisione infatti risente delle preoccupazioni di chi l’ha proposta, ossia il governo che ha operato per la propria “governabilità”, omettendo di trattare – e non è carenza da poco – i temi più nevralgici per la presente e le prossime generazioni: dal tema ambientale (si rammenta che le principali costituzioni europee hanno come componente essenziale la carta dell’ambiente), al tema dei rapporti ascendenti non meno che discendenti con l’Europa (salva la subalternità alle scelte della finanza pubblica dell’UE come già introdotta dalla riforma Monti all’art. 81 e 97 Cost.), al tema del rapporto tra finanza internazionale, stato sociale e democrazia in un mondo senza confini, almeno per merci e capitali.

In altri termini, la revisione non comprende l’agenda dei temi più incisivi sulla vita quotidiana né identifica e controlla i soggetti che dettano quell’agenda. Si allude a quella mano invisibile dei processi socio planetari che ha fatto la sua comparsa a discapito del principio di sovranità popolare. Così per “l’equilibrio anarchico delle potenze”, come per il “mercato internazionale”.

Dallo sfarinamento dei partiti al concentrato di governo.

La revisione è limitata alla dislocazione dei poteri, rafforzando il circuito governo – parlamento, facendo agio all’interesse nazionale sui poteri locali, ricostruendo il rapporto gerarchico tra Stato e Regioni, con l’abolizione delle Province, salvo mantenerne alcune con la denominazione di “città metropolitane”.

Gli altri temi della campagna referendaria come la sforbiciata del ceto politico, il contenimento della spesa (ritenuta improduttiva) per il Senato e lo stesso rimedio alla lentezza della legislazione (si ritiene essere dovuta soprattutto allo “sfarinamento dei partiti”), sono stravaganti rispetto alla centralità ed alla concentrazione del potere legislativo e di governo dello Stato da affidare al capo dell’esecutivo, senza tante mediazioni.

La questione che sarà affrontata e risolta il 4 dicembre prossimo, è quella delle forme di partecipazione democratica nell’esercizio della sovranità, ad iniziare dall’autogoverno delle comunità locali e dunque dal livello primario della democrazia in cui si esercita quel ministero di “partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale, del paese” (art.3 Cost.).

Visto “dal basso”, a chi giova?

Se si riesce ad oltrepassare i rumori di fondo di questo suk mediorientale che è diventata talvolta la convulsa propaganda mediatica, rimane che per meglio capire vantaggi e svantaggi della revisione non si può non mettersi a guardare “dal basso”, ossia da un punto di vista che coinvolga direttamente l’autonomia della persona e, subito dopo, quello della comunità locale e dell’ente esponenziale degli interessi dei cittadini: il Comune e la Provincia.

La domanda referendaria ne sottintende un’altra: come si collocherà il nostro Comune e la nostra Provincia nella Costituzione riformata, quali saranno le “chance” di partecipazione nel nuovo alveo istituzionale?

Una riforma oligarchica?

In primo luogo, è noto che la riforma sostituisce al circuito bicamerale della produzione della legge e del rapporto fiduciario / di controllo nell’attività di governo (ritenuti lenti e complicati), un rafforzamento del potere centrale a scapito del bilanciamento parlamentare e del decentramento territoriale del potere alle regioni – ordinarie, ma senza eccessive illusioni, anche per le speciali.

Sono però state rilevate alcune criticità quanto alla revisione costituzionale degli organi. Infatti.

– Quanto al Senato, si ritiene che esso diverrà una ibrida figura collocata tra una funzione para-rappresentativa di enti locali e quella di terminale di farraginose procedure di conciliazione inter-parlamentare. Certo è che esso non sarà un autorevole organismo di rappresentanza e di interlocuzione tra lo Stato e le autonomie regionali, tanto più necessario in relazione ad una proiezione europea della normativa a pluri-livello, quale è comunque quella dell’Italia.

– La Camera, d’altra parte, con la crisi dei partiti che non controllano più le procedure di selezione né dei bisogni sociali, né della classe dirigente, non sarà rappresentativa della pluralità delle opzioni del corpo elettorale, dato che con la connessa riforma del sistema elettorale (Italicum)(la vera madre di tutte le leggi, per essere la legge che compone il corpo legislativo), i parlamentari eletti saranno decisi non dalla cernita di qualità compiuta dagli elettori, bensì dal rapporto fiduciario – e di fedeltà – con i signori delle tessere.

Con il sistema premiale dell’Italicum si potranno inoltre avere governi, “fiduciati” da meno del 30% degli elettori e, dunque, leggi decise a prescindere dalla volontà del 70% del corpo elettorale: un “unicum” in Europa.

A questo punto è da porsi la domanda sul “cosa ci guadagna” la nostra autonomia dallo stringersi della cinghia dell’autogoverno locale nel resto del Paese.

Quali limiti saranno posti alla nostra autonomia dalla riforma di Renzi?

La questione centrale è dunque: quali vantaggi si profilano per l’autonomia speciale, in un sistema istituzionale che, con rovesciamento del principio di sussidiarietà verticale, afferma il principio egemonico dell’interesse nazionale, interpretato da un uomo solo al comando, mediante lo smantellamento dell’assetto costituzionale del 2001 – neppure completamente attuato – di una “Repubblica delle Regioni” come base e incentivo ad una “Europa delle Autonomie”.

a. Non basta l’ancoraggio internazionale. La Provincia Autonoma di Bolzano – e dunque, come è chiaro, “il partito solo al comando”, come antidoto al rovescio centralistico dell’assetto dei poteri, si è avviata nel vicolo cieco del “vincolo internazionale” fornito dall’accordo De Gasperi – Gruber.

Mediante un imponente investimento mediatico si sostiene la tesi che l’autonomia speciale, è “specialissima”, per salvaguardare la minoranza di lingua tedesca e ladina. Viene così allestita una piccola arca di Noè in un diluvio statalista. Chi però valuti, con intenso attaccamento alle ragioni dell’autonomia, la qualità e la dimensione dell’autonomia provinciale, dovrà serenamente concludere che essa è assai più estesa della stringata piattaforma dell’accordo De Gasperi – Gruber, dove peraltro viene affermato il principio di parità tra i gruppi e dove non è affatto prevista la vigente latitudine dei poteri legislativi provinciali.

Basti pensare che il sistema proporzionale nel pubblico impiego e nella distribuzione delle risorse, va ben oltre “l’ancoraggio internazionale” come unanimemente riconosciuto anche nei lavori preparatori al secondo Statuto di autonomia.

L’accordo di 70 anni fa è poi stato surclassato dalla storia della formazione dell’Europa unita ove la vera supremazia nella tutela delle minoranze, è assegnata ai Trattati ed alle Carte dei diritti, così che ben difficilmente si potrebbe credere che l’accordo De Gasperi – Gruber faccia parte del panorama costituzionale del nostro Paese, sia per difetto (di competenze) che per eccesso (di “tutele”).

C’è da credere dunque, che l’ancoraggio internazionale dell’autonomia sia assai meno garantista che non la cultura e la pratica diffusa di una Repubblica delle autonomie in un Europa senza confini, soprattutto perché l’autonomia è un bene indivisibile e non garantisce la tutela di un solo gruppo linguistico, più di quanto non garantisca, secondo principi di universalismo democratico, la partecipazione di tutti alla vita politica e sociale della nostra Provincia/Regione.

Ma la riforma Renzi/Boschi non si ispira a principi di sussidiarietà comunitaria e viene da credere che tanto più nel nostro paese si logora e si stravolge il “genere del regionalismo”, tanto più verrà sospettata come privilegio la “specie dell’autonomia differenziata” per il solo Sudtirolo.

b. Non basta l’amicizia con un uomo solo al comando, quando viene smantellata la cultura del regionalismo. Per coerenza, il progetto di smantellamento della Regione ordinaria – e soppressione dell’ente di vasta area quali sono le Province – concentra sul Governo un potere che la Costituzione oggi distribuisce sul territorio (le competenze concorrenti tra Stato e Regioni vengono tutte assorbite dai poteri centrali).

Ma tale confluenza di poteri sul leader che guida il Governo – con inevitabile commistione tra leadership di governo e leadership del partito che lo sostiene – presenta aspetti di rischio nell’equilibrio costituzionale, in quanto il leader risulta essere privo di contrappesi che ne moderino le scelte e ne integrino le lacune, secondo la brillante esposizione del politologo Sergio Fabbrini (“Addomesticare il principe – Perché i leader contano e come controllarli”).

C’è chi parla in proposito di un capo di governo ipertrofico, anche perché il rapporto fiduciario che il Governo intrattiene col Parlamento, diventerà una questione interna ad un ceto dirigente, sempre più appartato rispetto al consenso popolare.

Con la Riforma dell’Italicum, infatti, nella Camera Deputati, prevarranno gli eletti del partito vincente, con un consenso irrisorio di meno del 30% dei votanti e sarà un consesso quasi oligarchico, nominato per investitura del medesimo partito che governa, mediante la previa scelta di capilista nella compagine delle candidature, piuttosto che per rappresentanza degli elettori.

Quale vantaggio ne avrà la Provincia di Bolzano da una revisione costituzionale che canalizza il consenso verso una ristretta oligarchia, a parte quello, del tutto effimero, di poter trattare – e contrattare – con un uomo solo…. se amico?

c. Si restringono o no i limiti statutari delle competenze provinciali? Scendendo però nella verifica di dettaglio nei rapporti tra Statuto di autonomia e revisione costituzionale, i conti di un appoggio al testo di legge elaborato da Renzi e Boschi, da parte della Giunta Provinciale, non tornano.

In primo luogo, sfuggono le ragioni per cui una Provincia che legifera “in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento della Repubblica” (artt. 4 e 8 Statuto d’Autonomia), dovrebbe preferire, a una Costituzione di impronta regionalista, una Costituzione di opposta impronta centralista quale è quella su cui ci si esprimerà il 4 dicembre prossimo.

Del resto, è argomento non secondario quello per cui è del tutto improbabile che la revisione dello Statuto di Autonomia che conseguirà per trascinamento alla revisione della Costituzione, avvenga secondo modalità schizofreniche, riducendo le autonomie in Costituzione ed ampliando l’autonomia statutaria.

Oggi, l’imperativo del Governo è far approvare una riforma governista agevolando il consenso delle “speciali”, escludendole – per tempo limitato – dall’applicazione della Costituzione emananda. Già la cautela di porre le autonomie speciali al di fuori della riforma, sfasando i tempi della riforma costituzionale rispetto quelli della revisione degli statuti, ha il senso di una “excusatio non petita”, per il peggioramento del nuovo contesto autonomistico rispetto a quello in vigore.

Infatti dal 5 dicembre, se approvata, la Costituzione – salva la improbabile ipotesi che i limiti costituzionali ed ordinamentali di cui agli artt. 4, 5, 8 e 9 dello Statuto di autonomia siano descritti in articoli resuscitati di una Costituzione abrogata – restringe, fuori di ogni ragionevole dubbio, l’area della nostra autonomia in favore della prevalenza dello Stato.

Del tutto fuori dal mondo è poi che la revisione degli Statuti delle Regioni e delle Province a statuto speciale – incombenza che occupa anche la nostra Provincia – si possa ispirare alla vecchia Costituzione, piuttosto che alla nuova, visto anche il dettato della Legge Boschi: ”Art. 39 disposizione transitoria punto 13 … a seguito della suddetta revisione, alle medesime Regioni a Statuto speciale e Province autonome si applicano le disposizioni di cui all’art. 116 terzo comma della Costituzione, come modificato dalla presente Legge Costituzionale.”

d. La permeabilità della autonomia statutaria all’intervento statalista; esempio: riforma Monti sul pareggio di bilancio. Qualunque vantaggio si aspetti il “partito solo al comando” in Sudtirolo – salvo l’autodeterminazione e/o la totale separatezza tra regime statutario provinciale e regime costituzionale italiano, palesemente improbabile – dall’adesione alla riforma di Renzi e dunque ad un regime a competenze più accentrate ed a risorse meno distribuite nell’intero contesto nazionale, si tratterrebbe comunque di un grosso rischio, essendo del tutto plausibile che l’ispirazione che dovesse prevalere a Roma, si farà sentire anche a Bolzano con l’argomento, dialetticamente apprezzabile, che, comunque, questo stravolgimento culturale dal regionalismo al centralismo era condiviso anche dal partito monoetnico tedesco.

Agli altri rimarrebbe il merito di essersi battuti per evitare quello che una scuola ampiamente condivisa di costituzionalisti, definisce “lo stravolgimento della Costituzione italiana”. Con il Referendum si dovrà decidere di trasferire allo Stato in via esclusiva “il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, mentre al Governo spetta di proporre leggi dello Stato per intervenire in materia anche di competenza regionale “quando lo richiede la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

D’altra parte, dopo l’esperienza, in verità poco segnalata in sede locale, della prevaricazione che la riforma Monti della Costituzione del 2012 (ad artt. 81 e 97 Cost.) ha imposto sull’autonomia finanziaria e di bilancio di tutti gli enti territoriali (tutti perdenti rispetto alle determinazioni in materia impartite dagli organi UE), dovrebbe essere chiaro che gli Statuti delle autonomie sono permeabili alla grande, rispetto al principio di “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario nazionale”, (competenza legislativa che da essere concorrente tra Stato e Regioni verrebbe assunto in via esclusiva dallo Stato secondo l’art. 117 Cost. novellato).

Non pare così essere prevedibile che nella revisione dello Statuto di autonomia, operato d’intesa tra Provincia/ Regione e Stato (nessuno ancora può dire attraverso quali alchimie ciò possa avvenire), la nostra Provincia, possa lucrare di una zona franca, nell’ambito dell’autonomia finanziaria e in quella tributaria.

La Legge Boschi non fa sconti né prevede eccezioni. La posizione della Giunta provinciale, già protagonista di un defatigante contenzioso costituzionale sul tema, oggi, per puro paradosso, si schiera con lo Stato centrale rafforzando i suoi poteri di supremazia ed innescando ulteriori motivi di controversia. A ragion veduta? Non è dato di sapere.

Dal resto, se l’argomento per il “si”, è quello di ridurre il contenzioso in Corte Costituzionale tra lo Stato ed un regionalismo a geometria variabile, come può pensare la nostra Giunta di essere esonerata dal rimedio della “semplificazione” e della ”accelerazione”, e come può distanziarsi, aderendo all’ispirazione della riforma, da una cultura – antipolitica – secondo cui il regionalismo non è inteso come celebrazione di un rito democratico, ma come complicazione e rallentamento del passo svelto (?) del Governo?

Semplificare come unificare al centro, come affermare il dirigismo statale sui servizi e la accelerazione delle grandi opere e della liberalizzazione dei fondamentali dell’economia.

Del resto, la concentrazione delle competenze nell’attività dello Stato (Governo e Ministeri) ed il potere trasversale di avocazione da parte del Governo centrale di competenze non proprie, in ragione di un interesse nazionale dagli incerti contorni o di un ancor meno definibile interesse per l’unità giuridica ed economica della Repubblica, come si concilia con il principio di sussidiarietà?

La Riforma Renzi (non a caso prende titolo dal Capo del Governo e dal Ministro e non da rappresentati del Parlamento come sarebbe conforme alla procedura parlamentare di revisioni costituzionale, art. 138), acquisisce allo Stato centrale persino le competenze in materia di “ordinamento dei Comuni e città metropolitane” sottraendole alla competenza concorrente con le Regioni, con le quali lo Stato (oggi) interloquisce limitandosi alla formulazione dei principi fondamentali; così anche per le discipline giuridiche del lavoro alla dipendenza delle pubbliche amministrazioni, così per le disposizioni comuni e per quelle generali sul governo del territorio etc.

Insomma, nella sommersione statalistica delle autonomie regionali, la PAB (e questa vale anche per la PAT ndr), come oggi è rappresentata, immagina di essere l’unico palombaro. Inoltre, se le Regioni sono parte coessenziale della Repubblica e dunque, partecipano ed interpretano in armonia con la nazione, l’interesse nazionale, perché escluderle nella valutazione di tale interesse incidente nel proprio territorio?

Si tratta, come noto, delle grandi opere, dei sistemi integrati di comunicazione, delle linee di trasferimento dell’energia o delle ricerche di fonti energetiche sottomarine, insomma materie tutte strettamente connesse con la tutela del territorio e dell’ambiente di cui, in primo luogo, le comunità locali sono custodi e rappresentative degli interessi diffusi della popolazione.

Oggi la Costituzione presidia l’autonomia degli enti territoriali, cui viene direttamente attribuito potere di autogoverno; con la riforma essi diventano più subalterni allo Stato centrale che non suoi interlocutori in una relazione di leale collaborazione.

L’intervento del Governo potrà esercitarsi sul territorio regionale anche all’insaputa dell’ente esponenziale delle popolazioni e persino in palese contrasto con l’interesse di queste, fino ad una sorta di occupazione del territorio secondo una interpretazione soggettiva dell’interesse nazionale, tutt’altro che neutrale bensì rimessa ad una compagine politica che formalmente assume la maggioranza nel paese ma, come si è visto, potrebbe essere una “maggioranza falsificata”.

e. Il referendum prosciuga l’acqua di coltura delle autonomie. La revisione costituzionale se sarà approvata con il sì del corpo elettorale, prosciugherà l’acqua di coltura di ogni forma di autonomia istituzionale, con effetti deleteri sulla stessa nostra autonomia speciale.

Questa infatti ha avuto una importante dilatazione con la riforma della Costituzione del 2001 – testo in vigore – che consente alla Provincia, ben oltre le attribuzioni dello Statuto del ’72, di appropriarsi di ogni condizione di miglior favore rispetto al godimento della propria autonomia, che sia condivisa dalle Regioni ordinarie.

Tutte le autonomie speciali dunque utilizzano questa clausola di galleggiamento nel senso che crescendo il livello delle competenze delle Regioni ordinarie al di sopra di quello delle speciali, anche queste beneficiano della spinta verso l’alto, aumentando le proprie risorse giuridiche ed economiche. Ovviamente il parametro vale sia in salita che in discesa, cosicché abbassandosi l’autonomia delle Regioni si contrae anche la nostra, perdendo tutto quanto (ed è molto) non sia previsto dallo Statuto.

Questa clausola felice crea un sistema di vasi comunicanti nell’intera rete regionale, facendo convergere tutto il sistema verso un sostegno solidale e reciproco. Vi è, ad esempio, quale conseguenza di questo principio, la deroga ad un limite importante per la normazione statutaria e cioè quello “delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica” (art. 4, 5, 8, 9. Stat. Aut.).

La regola è dunque che la sussidiarietà dilata i confini dell’autonomia. Ma se lo Stato avoca a sé poteri già propri delle Regioni, perdono le Regioni e perde anche la Provincia autonoma.

L’impoverimento della rete delle autonomie, provoca una chiusura idraulica per le competenze nel Sudtirolo e nel Trentino. Una perdita però ancora più irreversibile, sarebbe, con la vittoria del sì, l’abbandono nel Paese di quel comune sentimento di condivisione del regionalismo come plebiscito quotidiano che sostiene nella coscienza collettiva, le istituzioni democratiche autonomistiche e che ha orientato, sin dall’approvazione del secondo Statuto, anche il Parlamento nazionale ad aprirsi alle richieste della cultura democratica, come si esprimeva Altiero Spinelli nel convegno de “Il Mulino” del 4 novembre 1961 a Bolzano, promosso da Lidia Menapace e da Giuseppe Farias. “Cercate gli alleati non fra le forze più conservatrici d’Italia, ma fra le forze che vogliono un rinnovamento della democrazia in Italia, e per questa ragione saranno aperte alla vostra richiesta che è di rinnovamento democratico”.

La comunità sudtirolese non può perdere il contatto solidale ed amichevole della cultura regionalista, dentro e fuori i confini del nostro territorio.

Da ultimo: una riforma autoreferenziale.

La proposta di riforma e la sua approvazione parlamentare è stata indotta da un Governo che non ha avuto né il conforto di ampia rappresentanza della popolazione (corpi intermedi, comunità scientifica, enti locali), né il coinvolgimento di quote significative della rappresentanza parlamentare.

Si intende così forzare l’approvazione della Riforma avendola dapprima sottoposta ad un Parlamento scarsamente legittimato dal voto popolare (cfr. sentenza Corte Costituzionale…) e quindi, legato alle sorti del Governo ove gioca un ruolo indistinto il capo del partito, nella medesima persona del capo del Governo.

La riforma risulta così molto segnata da un riflesso autoreferenziale. In alternativa, secondo una concezione democratica di formazione politica dell’opinione e della volontà dei cittadini/cittadine, se intendiamo la riforma della Costituzione come prassi dell’autodeterminazione civica, essa non potrà che avere per modello il dialogo con e tra le componenti della società.

Per questo l’occasione di riformare la Costituzione non va sprecata.

 

Bolzano, 22 novembre 2016 

4 Comments

  1. Matteo Carlin ha detto:

    Se mai posso avere una remora sul votare SI è sapere che Michele tu sostieni convinto il No.

  2. Michele Nardelli ha detto:

    Grazie Matteo per questa tua espressione di considerazione. Sono abituato ad essere minoranza come già avvenne con il referendum che nel 1991 diede il là al sistema maggiortario. Non solo una scelta sul sistema elettorale bensì il farsi largo a furor di popolo di una cultura politica che considero oggi ancora più devastante di quando votai no venticinque anni fa. Temo che in questo caso ne pagheremo ancor più le conseguenze sul piano della cancellazione di quel po’ di federalismo introdotto nel 2001 (e scarsamente attuato anche perché autogoverno significa assunzione di responsabilità), preludio per un profondo attacco alla nostra stessa autonomia.

  3. vincenzo ha detto:

    Quello di Gianni Lanzinger può essere preso come base per il manifesto del nuovo movimento federalista che deve segnare la ripartenza della politica. Titolo: 5 dicembre 2016: per una nuova costituzione nell’Europa delle autonomie.

  4. vincenzo ha detto:

    Ancora sul documento Lanzinger: andrebbe convocata al più presto una riunione delle forze democratiche disponibili con all’o.d.g. la costituzione di un comitato regionale di contatto, aperto ai ladini bellunesi, che prenda in esame le problematiche evidenziate nel documento. Nella malaugurata ipotesi dell’entrata in vigore del nuovo testo, la questione dell’incompatibilità del ruolo di senatore con quello di consigliere regionale rimarrebbe irrisolta, stante il quadro politico centralista vigente sia in Italia che in Austria. Il varo di un nuovo statuto entro il 2018 per disinnescare gli inevitabili conflitti è un’ipotesi irrealistica (l’iter prevede quattro letture parlamentari previa approvazione delle due Provincie e della Regione, con intesa finale col governo nazionale). Se prevalesse il No al nuovo testo andrebbe in ogni caso rivisto l’intero iter previsto per il varo di un terzo statuto in chiave federalista europea. Propongo una convocazione urgente di “territoriali#europei”.