Immagine di Leszek Bujnowscki.
Roma/Trento. Così lontane, così vicine.
21 Novembre 2016
Apparenze
Perché No? La riforma vista dal basso
1 Dicembre 2016
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Una domanda però, una volta preso atto della situazione, è d’obbligo: doveva andare proprio così? Accade la stessa cosa anche in altri Paesi? La risposta è no: vi sono realtà sia regionali che nazionali ove le riforme costituzionali vengono affrontate in modo completamente diverso (per non dire opposto), sulla base di un’impostazione culturale e di una visione istituzionale molto più coerenti con i principi democratici. In Irlanda, ad esempio, ma anche in Islanda ed Estonia, il compito di elaborare le proposte di riforma della Costituzione e di articolare le relative modifiche viene affidato direttamente ai cittadini, sulla base di meccanismi partecipativi collaudati e coinvolgendo (anche attraverso l’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche) il paese intero. Per non dimenticare le due Provincie canadesi di British Columbia ed Ontario, nonché l’Olanda, ove ad essere sottoposta all’attenzione ed al giudizio dei cittadini è l’altrettanto importante e delicata questione della riforma elettorale[1].

Si tratta, nel complesso, di processi che si basano sul confronto fra le varie posizioni, sul dialogo, sullo scambio di argomenti ed opinioni, sulla possibilità di modificare e correggere gli stessi giudizi di partenza, in un contesto in cui non domina l’arroganza o la polemica, ma la disponibilità al reciproco ascolto, ed in cui le indicazioni ed i suggerimenti che scaturiscono dal processo partecipativo vengono generalmente accolti e fatti propri dai governi e dai parlamenti. Ed è chiaro come, giunti a questo punto, anche l’eventuale referendum che dovesse concludere e sancire una tale procedura verrebbe ad assumere un significato del tutto particolare (e diverso da quanto avviene nel nostro paese), in quanto le riflessioni emerse dal dibattito e dal confronto tra i cittadini offrirebbero agli elettori la possibilità di formarsi un’opinione più attenta e li aiuterebbero a decidere nel merito del quesito in modo più informato e consapevole.

Utopia! insinuerebbe qualche incallito realista. Nient’affatto: queste pratiche e queste modalità di partecipazione sono ben presenti, operanti e soprattutto in via di espansione. E’ piuttosto il nostro paese ad essere indietro ed a coltivare una cultura politica, infarcita di leaderismo e decisionismo, non all’altezza dei tempi e delle sfide di una società complessa e plurale. Pensiamo, ad esempio, al concetto di “cambiamento”: è diffusa l’opinione che il “cambiamento” possa avvenire solo “dall’alto”, ad opera di un leader illuminato o -come nel nostro caso- dello stesso governo (che ha fortemente voluto la riforma in discussione). Ora, è chiaro che in determinati specifici frangenti l’opera di un leader carismatico possa risultare modernizzatrice: ma è altrettanto vero che normalmente un cambiamento che avvenga “dal basso” e che sia il frutto di una scelta collettiva risulta molto più legittimo, solido ed efficace, proprio perché poggia sul consenso e sulla condivisione di coloro che dal quel cambiamento sono investiti. E quindi è inutile e fuorviante insinuare -come sta avvenendo- che il referendum costituzionale porterebbe al “cambiamento” in sé, senza specificare di quale cambiamento si tratti.

Io credo che al fondo di tutte queste questioni stia l’equivoca “cultura del maggioritario” che si è affermata in Italia nell’ultimo ventennio, sia a livello istituzionale che nello stesso senso comune. E’ infatti convinzione diffusa (ed ispira la stessa filosofia dell’Italicum) che una “maggioranza” investita da un mandato elettorale abbia il diritto/dovere di decidere e governare a prescindere da come la pensino la/e minoranza/e, cui non rimane che adeguarsi attuando una assai povera attività di controllo. In realtà le cose non stanno necessariamente così: alcuni fra i maggiori studiosi della democrazia (John Dewey, Bernard Manin, Hans Kelsen) osservano che una vera maggioranza non è tale solamente dal punto di vista numerico, sulla base della “conta” delle preferenze, ma si costituisce attraverso il coinvolgimento ed il confronto tra tutte le sue componenti, per cui diventa di fondamentale importanza la discussione ed il dibattito che si apre al suo interno.

Ricostruire una cultura politica degna di questo nome diventa quindi un’esigenza improrogabile, che implicherà molto impegno e forse tempi lunghi, ma che comunque dopo il referendum andrà avviata.

 

[1] Per una accurata ed esaustiva descrizione di questi processi partecipativi cfr. il recente volume di Rodolfo Lewanski, La prossima democrazia. Dialogo-deliberazione-decisione, 2016, scaricabile gratuitamente da www.laprossimademocrazia.com

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