Fabrizio era così…
20 Ottobre 2016Regioni a statuto speciale: cosa succede con la riforma?
28 Ottobre 2016La questione palestinese, con tutto il suo valore simbolico, è infatti ad un tempo origine e parte di un mosaico che sta letteralmente andando in frantumi, con esiti che si rivelano ogni giorno più cruenti ed estesi ben oltre la Mezzaluna fertile del Mediterraneo. Non lasciando intravedere soluzioni ed incancrenendosi, nell’occupazione militare israeliana del 78% del territorio della Palestina storica, nel proseguire degli insediamenti illegali, nella volontà di fare di Gerusalemme la capitale dello stato ebraico, nella determinazione della destra israeliana e dei nuovi coloni di fare di Israele uno stato confessionale.
Alla disintegrazione del mosaico post coloniale fatto di stati privi di qualsivoglia ragione storica che non fosse quella delle aree di influenza e di corrispondere al paradigma novecentesco degli stati nazione (e che le primavere hanno oltremodo evidenziato), corrisponde paradossalmente un nazionalismo ebraico che ha progressivamente inquinato il quadro d’insieme così che la crisi del nazionalismo arabo ha assunto le forme della rivendicazione di stati etici per gran parte delle componenti etniche o nazionali presenti nella regione.
Quanto è accaduto, del resto, nelle crisi seguite in Europa alla caduta del muro di Berlino e alla deflagrazione dell’Unione Sovietica: deriva nazionalista, fondamentalismo religioso e criminalità organizzata sono infatti i tratti assunti dalla transizione dal socialismo reale al turbocapitalismo.
Noi potremmo proseguire per anni come abbiamo fatto sin qui nel sostenere la causa della pace e del dialogo, dell’autodeterminazione e della convivenza, compresa l’idea rivelatasi a mio avviso sbagliata e beffarda dei “due popoli per due stati”, ma nell’assenza di elaborazione del conflitto e prigionieri dei paradigmi del Novecento non ne verremo a capo.
Per uscire dalla cruenta crisi che sta devastando la regione e dall’incubo in cui si sono cacciati vittime e carnefici di un’occupazione infinita, serve un cambio di prospettiva, un mutamento di paradigma nel quale il riferimento non sia più lo “stato-nazione”.
Se infatti il Novecento è stato il secolo del nazionalismo (ne abbiamo viste le tragiche conseguenze nel consumarsi attorno ai confini europei delle due guerre mondiali, tanto da farne il “secolo degli assassini”), il primo secolo del nuovo millennio dovrebbe essere quello delle sovranazionalità. Occorre in questo quadro superare l’equivoco secondo il quale lo stato (e lo stato-nazione in particolare) debba rappresentare una condizione di sovranità. Scrive Hannah Arendt, ebrea avversa al sionismo come lo erano prima della shoah la quasi totalità degli ebrei nel mondo: «Data la condizione dell’uomo, determinata dal fatto che sulla terra non esiste l’uomo, bensì esistono gli uomini, libertà e sovranità sono così lontane dall’identificarsi da non poter neppure esistere simultaneamente…» e prosegue «Se gli uomini desiderano essere liberi, dovranno rinunciare proprio alla sovranità»1. Quella che negli anni ’50 del secolo scorso poteva apparire come una profezia oggi si manifesta in tutta la sua attualità: nell’interdipendenza nessuno è sovrano.
Non si tratta come si può comprendere di una questione che riguarda il solo vicino Oriente. Riguarda la condizione dell’uomo (degli uomini per dirla con la Arendt) e delle contraddizioni nelle quali ci dibattiamo: tutto è sovranazionale e, semmai, territoriale.
Potremmo dunque affermare che l’approccio sovranazionale è la condizione per affrontare la crisi di questo tempo incerto, immaginando una nuova capacità progettuale sul piano europeo, mediterraneo, alpino, adriatico-ionico, danubiano, baltico e così via, scardinando i vecchi confini che oggi si vogliono paradossalmente rafforzare, delineando nuovi scenari attraverso i quali farci carico anche delle pesanti eredità del passato.
Vale per noi come per i nostri amici palestinesi. Evitare di infilarsi nella cornice dello stato-etico per loro dovrebbe essere pressoché naturale, bypassare la dimensione dello stato-nazione per immaginarsi nella dimensione che nella storia è stato l’elemento naturale: un’area geografica nella quale vivevano storicamente nazionalità, lingue, idiomi, culture diverse laddove Siria, Iraq, Kurdistan, Giordania, Libano, Palestina erano regioni di una comune appartenenza araba.
E questo cambio di prospettiva dovrebbe valere anche per i nostri amici ebrei che hanno aderito all’idea di uno stato sionista solo come effetto della tragedia che hanno vissuto nel corso del Novecento, senza comprendere che il tunnel nel quale si stavano infilando contraddiceva la loro storia e la loro stessa cultura cosmopolita.
Se per questi ultimi appare oggi largamente improbabile una capacità di tornare sui propri passi (ma giustamente qualcuno di parte ebraica ha osservato che l’occupazione è controproducente anche per loro), per quanto riguarda la realtà palestinese (e ora anche siriana, irachena, giordana, libanese…) la prospettiva di una grande confederazione sovranazionale del mondo arabo potrebbe rappresentare un nuovo orizzonte. Scriveva Edgar Morin all’indomani degli attentati di Parigi: «…A questo punto, ricostruire l’integrità della Siria e dell’Iraq appare impossibile. L’unica soluzione allora è riprendere, tornare a far vivere il sogno di Lawrence d’Arabia, promuovendo una grande Confederazione del Medio Oriente in cui sia ripristinata la libertà di culto…»2.
A questo potrebbe corrispondere un progetto “Mediterraneo” nel quale coinvolgere oltre agli stati (meglio sarebbe dire le regioni che si affacciano sul mare nostrum) anche Israele, immaginando un ambito sovranazionale nel quale i contraenti siano disponibili a progressive cessioni di sovranità (per quanto residuali) così com’era stato immaginato qualche anno fa da Romano Prodi nella sua funzione di Commissario europeo e da Predrag Matvejevic incaricato di dare attuazione al protocollo di Barcellona.
Una visione, quella sovranazionale, sulla quale fondare il rilancio di un progetto di pace nella regione. Una nuova rinascita (Nahda) politico culturale che, in fondo, era ciò che si prefiggevano le primavere prima che queste venissero travolte, tranne forse nella vicenda tunisina, dalla deriva religiosa o dalla repressione violenta.
Quel che avremmo potuto fare come movimenti per la pace era esattamente questo: aiutare ed aiutarci a riflettere sul nostro tempo, indagare le categorie di pensiero, formare nuove classi dirigenti. Invece di cercare conferme del proprio modo di pensare, provare a capire quanto il nostro sguardo fosse in grado di interloquire negli scenari di una modernità sempre più interdipendente. E comprendere che la solidarietà oggi si esprime non sul piano degli aiuti (non parlo delle situazioni di emergenza, quand’anche anche in questo caso vi sia la necessità di conoscere e costruire relazioni prima ancora di agire), ma su quello delle relazioni improntate alla reciprocità.
Voglio dire che quanto sta accadendo in Siria non è solo responsabilità dei signori della guerra, ma anche di chi – di fronte ad un anno e mezzo di grandi manifestazioni nonviolente che hanno attraversato questo paese per rivendicare una svolta politica e che vedevano protagoniste le donne e i giovani – non ha compreso che in assenza di un’interlocuzione politica tutto questo avrebbe potuto degenerare violentemente. Una lezione per la politica, di cui purtroppo non si è ancora fatto tesoro.
1Hannah Arendt, Tra passato e futuro. Garzanti, 1999
2Edgar Morin, intervento al Meeting annuale della Casa editrice Erickson, 2015