Il futuro che abbiamo cercato di costruire
20 Novembre 2016Ponti da ricostruire…
29 Novembre 2016Similitudini che, a ben guardare, sono il sintomo di un male – per una volta è necessario generalizzare – che attanaglia gran parte dei sistemi di governance (locali e globali) e che emerge quotidianamente nella quasi totale assenza di risposte efficaci alle convulsioni – sociali, culturali ed economiche – da cui è colpito l’intero pianeta e, a cascata, ogni contesto locale. Ad essere problematiche non sono solo le condizioni del vertice della piramide della democrazia rappresentativa, ma anche quelle della base sociale, driver fondamentale di legittimazione, sostegno e propulsione. Va tenuto presente questa cornice complessiva per non commettere l’errore – l’esperienze Raggi insegna, la parabola del governo Renzi conferma – di confidare nel potere taumaturgico del singolo che, di punto in bianco (qualcuno direbbe “con la sola imposizione delle mani”) si occupa di correggere gli errori del sistema. Il dato che sembra sfuggire è che il sistema che ha bisogno di una decisa ristrutturazione siamo noi a comporlo. L’intera comunità, nessun escluso. Deve essere chiaro che senza una diffusa propensione al cambiamento – unita a modelli davvero innovativi e radicali di governance, altrettanto diffusa e distribuita – la capacità di adattamento della specie umana non sarà più un valore ma solo irresponsabile inerzia di fronte agli eventi che ne accompagnano l’evoluzione.
Provo a rispondere punto per punto (con maggiore o minore profondità) senza nessuna ambizione di tirarne frettolosamente le fila e con l’obiettivo di tenere aperta la conversazione. Qui l’articolo completo: http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=3799
1) Roma viene descritta così. “I vertici di queste forze politiche sono infatti ossessionati dall’idea del nemico interno.” E ancora “In fondo, e più semplicemente, è un sistema che si alimenta della sfiducia, da parte degli inclusi, e del risentimento, da parte degli esclusi.” Non è molto diversa la situazione trentina, lì dove da mesi – di fatto dal giorno stesso delle elezioni – si trascina una stanca dialettica di maggioranza, dove a prevalere sono i personalismi, i tatticismi, le malizie. Una fase politica improduttiva che aggiunge alla sfiducia e al risentimento che Falocco racconta benissimo nel suo testo la sensazione che anche qui al nord si sia arrivati all’esaurimento di un’Era politica (uso il termine Era perché ne possiede le caratteristiche di durata, senza nessun accenno di discontinuità e con rarissimi esercizi volti alla produzione di alternative reali allo status quo) e che la travagliata legislatura in corso non si possa vedere in nessuna maniera come un’opportunità ma come un tragico accanimento terapeutico – in chiave cittadina, come a ben vedere sul piano provinciale – nei confronti della coalizione di centro-sinistra che governa questo territorio da quasi vent’anni. A questa ingloriosa conclusione si accompagna la totale assenza di costruzione di nuova classe dirigente (sia da un punto di vista anagrafico che ideale) e un progressivo sgretolamento del capitale sociale che dovrebbe essere il tratto distintivo di un contesto geografico e politico. Questa perdita di sentire comune è ancor più evidente nel momento in cui quella stessa comunità è chiamata a impegnarsi nella revisione – e attualizzazione – dello Statuto di Autonomia, la norma che regola i rapporti tra Regione e Stato. Un impegno che, al momento, trova un riscontro debole e poco convinto nel popolo trentino, più difensivo che propositivo, più spaventato che desiderante. Un segnale preoccupante, laddove all’interno di questo processo si dovrebbero rintracciare le motivazioni fondanti – si direbbe la costituzione materiale – della legittimità presente e futura della specialità di questa terra alpina, confermandone la vocazione di laboratorio politico e di luogo votato all’autogoverno.
2) “E’ possibile nessuno senta mai la necessità di organizzare – attraverso associazioni, fondazioni o scuole di formazione politica – percorsi di conoscenza del territorio che si apprestano a governare?” Non solo è possibile, ma è in un certo senso richiesto che la dimensione di inchiest-azione territoriale non venga mai presa seriamente in considerazione. Un esempio, per rimanere a Roma, è quello dello scarso “utilizzo” delle competenze e della squadra di Fabrizio Barca nell’animazione e nell’infrastrutturazione positiva dei Municipi attraverso il progetto “I luoghi ideali”. Per la città di Trento la situazione più paradigmatica – almeno dentro l’architettura istituzionale – è quella che si riferisce alla mancata modifica del ruolo delle dodici circoscrizioni cittadine, un numero cospicuo per una città di poco più di 100.000 abitanti, che potrebbero essere reale cinghia di trasmissione tra periferie e centro, in una virtuosa rappresentazione delle peculiarità dei diversi contesti urbani. Non si riesce a valorizzare – escluso qualche raro caso – la dimensione di strettissima prossimità di questi strumenti di rappresentanza e, potenzialmente, di partecipazione preferendo preservarne il marginale ruolo di “consigli di quartiere”, con risulti di alterna utilità.
3) “Dopo qualche settimana di governo il panorama politico si intasa di clan e capi-bastone, che affollano le cerchie ristrette, gli assessorati e i consigli comunali.” Niente da aggiungere, se non che spesso i corpi sociali – per comodità, interesse o semplice mancanza di energia vitale – si adattano perfettamente, plasticamente, alle rappresentanze che esprimono. Questo discorso vale almeno per la parte di cittadinanza che agisce ancora la propria opera di selezione (con il voto) e di accompagnamento (con attività quotidiana, verificandone e giudicandone l’operato, stimolandone la curiosità e sapendone segnalare gli errori) della rappresentanza politica. Fuori da questo perimetro sempre più ridotto c’è un mondo che contiene tutto e il contrario di tutto: la passione civica e il rinserramento, il mutualismo di quartiere e le spinte securitarie, la sussidiarietà e il rancore, l’accoglienza e il razzismo, la coscienza di classe e di luogo e la solitudine spogliata di ogni punto di riferimento, l’innovazione e il conservatorismo. Trento non è in questo diversa da Roma, così come simili sono centinaia di altre città situate in altri territori d’Italia e d’Europa. Città in crisi d’identità. Città fallite, non tanto nei bilanci quanto nella capacità di produrre coesione sociale, nell’ambizione di condividere processi di trasformazione dell’esistente, nell’idea di essere piattaforme civiche, vitali e abilitanti, per cittadine e cittadini.
4) Il peso dei tecnici è indirettamente proporzionale a quello che riesce a esprimere la guida politica, in termini di autorevolezza, generatività delle idee, chiarezza dei processi di governance.
Le competenze servono eccome (nei politici e in coloro che ne accompagnano le scelte) ma non bastano. Trento è la sua eccezionale efficienza non mettono al riparo una comunità dalla stessa deriva che vive la metropoli romana. I risultati che oggi sono davanti ai nostri occhi (ottimi, buoni, sufficienti o disastrosi che siano) sono frutto della capacità interpretativa, di scelta, di attivazione e di inclusione delle competenze di cui una comunità è ricca messe in pratica almeno dieci anni prima. Lo stesso vale per ciò che si saprà mettere – o non mettere – in cantiere oggi e che avrà il suo punto di caduta (ottimo, buono, sufficiente o disastroso) tra due, tre, o quattro lustri. Se la crisi – come dice Falocco – è lunga dieci anni, i dividendi (negativi) le città li pagano ben oltre il presente nel quale lui auspica, così come lo auspico io, la nascita di un nuovo laboratorio politico che sappia mettere in comunicazione diverse centri urbani.
5) La forma non salva dall’assenza di contenuto. I curriculum difficilmente – da soli -producono scelte capaci di influenzare il futuro, a meno che non si creda che le dinamiche sociali di una città si possano risolvere tutte grazie all’impeccabile operatività di un algoritmo perfetto. Con questo non nego la necessità di possedere competenze specifiche, dato oggi assolutamente necessario nella complessa articolazione della gestione dello spazio urbano. Richiamo però alla centralità della politica che da più parti è stata messa ai margini del discorso pubblico, dipinta come inutile o – peggio – dannosa.
6) “Ogni tanto si assiste alla promozione, con incarichi pubblici, di qualche esponente civico sperando in tal modo di migliorare il rapporto con la città e rafforzare le proprie antenne sul “reale”. In verità l’esito di questi tentativi non è molto dissimile dal rapporto con le tecnocrazie.” Dentro la società liquida – quasi gassosa – come si devono muovere le istituzioni (il governo delle città) e i corpi intermedi (partiti, associazioni, movimenti)?
L’esempio dell’amministrazione del capoluogo trentino è paradigmatica. Un’esperienza amministrativa lunga cinque legislature (non cinque mesi come quella grillina) e che pure sconta gli stessi problemi di relazione con i cittadini, arrivando paradossalmente a chiamarli oggi, in forma scomposta con un’iniziativa promossa da uno solo dei partiti della coalizione, a condividere idee – all’insegna della concretezza s’intende, niente voli pindarici, niente visioni – per capire in che direzione far muovere la barca in stallo prolungato. Che ne è stato negli ultimi anni della necessaria connessione e interlocuzione costante con la cittadinanza? Cosa si è fatto per rendere consapevole la popolazione delle sfide della città e dell’esigenza di procedere insieme nell’affrontarle? Sono cambiate le coordinate della politica e ancora nessuno sembra ha raccolto davvero la sfida di questa trasformazione in atto. Bisogna riconoscere al M5S di aver intuito in anticipo il livello della crisi del sistema politico, approfittandone per riempire, almeno dal punto di vista del consenso, molti degli spazi lasciati vuoti dagli attori tradizionali della politica. Va detto che arriva sempre dal Movimento di Beppe Grillo l’idea (poi tristemente smentita nella gestione della democrazia interna dello stesso movimento) di attivare processi di democrazia diretta come antidoto alla difficile condizione in cui versa la democrazia rappresentativa, a ogni livello. Alla prova del potere – titolo anche di un bel libro di Giuliano da Empoli, che merita una lettura per capire il lascito degli ultimi trent’anni del minestrone politico/culturale italiano uscito dagli anni ’80 e dall’affair Tangentopoli – nessuno sembra essere ancora in grado d’interpretare il nuovo contesto emergente. Nessuno sembra volersi assumere la responsabilità di bonificare un terreno di gioco da troppo tempo impraticabile, nel quale qualunque squadra rischia di rimanere impantanata. Il lavoro di riqualificazione del contesto – adeguamento dei linguaggi, formazione delle competenze, miglioramento dell’attitudine al confronto e al conflitto, riaffermazione della prevalenza del collettivo sull’individuale, riconoscimento dei beni comuni e trasformazione di essi in beni di comunità – non è un aspetto secondario della questione ma un obiettivo necessario che chi vorrà interessarsi di politica dovrà agire con lungimirante spirito di servizio, anche nei confronti di chi in questo momento nel fango trova l’habitat ideale e ha tutto l’interesse che le condizioni attuali non cambino.
7) I poteri – globali e iperlocali insieme – diventano infinitamente forti nel momento in cui la politica (da intendere come strumento di progettazione e costruzione del futuro, oltre che garante del raggiungimento e mantenimento della giustizia sociale) è al contrario infinitamente fragile.
8) “La legalità è diventata un feticcio ideologico di una politica vuota” scrive ancora Falocco. Rispondo citando il bel libro di Ugo Ischia “La città giusta”: “La giustizia” – invece – “non sta solo nelle risposte, ma esiste nelle premesse […] La città giusta non è una città fisica, visibile; è una città di principi, temi, domande, azioni”. [1] E’ da qui che può ripartire l’analisi delle città che viviamo. Dal riconoscimento della loro naturale complessità. Dal presa in carico e nella messa in rete delle differenze che le compongono. Dalla consapevolezza che servirà radicalità di pensiero e di azione per ridare corpo al patto di cittadinanza che in riva al Tevere come alle pendici del Bondone vediamo vacillare. Dalla certezza che il ruolo dei tessitori e delle tessitrici è oggi quello meno agevole e che nel breve periodo sembra offrire meno soddisfazioni, meno certezza di successo. A meno che non esista una platea – ancora tutta da scoprire – sufficientemente ampia e motivata di soggetti che, condividendo l’inquietudine nei confronti del presente, non sappia velocizzare il processo di costruzione e di radicamento di alleanze inattese nei contesti urbani. Un processo – quello che io propongo – di animazione e sviluppo di comunità, di abilitazione a un diverso concetto di cittadinanza dei singoli e dei gruppi organizzati, di “democratizzazione della democrazia”, per dirla con Étienne Balibar. Un processo in grado di ridefinire i contorni delle categorie del politico e del sociale. Ne abbiamo bisogno, a Roma come a Trento. Così lontane, così vicine.
[1] La città giusta, Ugo Ischia – Edizione Donzelli