Democrazia e forme partecipative, un’occasione mancata
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Partiamo dall’anniversario. Il peso degli anni si sente più di quanto i numeri possano indicare. Perché paradossalmente un’autonomia quasi integrale come quella raggiunta nella nostra regione, considerata una delle esperienze di autogoverno più avanzate e per questo studiata nel mondo come esempio di risoluzione nonviolenta dei conflitti, non può fare a meno di un corpo sociale capace di interpretarla.
Ed è qui, prima ancora che nel rapporto con lo stato, che possiamo misurarne i limiti. Ovvero l’inadeguatezza di una classe dirigente (non solo politica) e la fatica a far crescere la cultura dell’autogoverno nel tessuto sociale come pratica diffusa di assunzione di responsabilità e di capacità di interpretazione dinamica di fronte ai profondi processi di trasformazione che un tempo sempre più interdipendente ci consegna.
Entrambi questi aspetti fanno sì che l’autogoverno segni il passo. Laddove infatti tanto il Trentino che l’Alto Adige – Sud Tirolo hanno saputo rappresentare (e ancora rappresentano) una terra di avanzata sperimentazione sociale, oggi ci si risveglia impigriti da un livello di benessere dato per scontato. Lo stesso vale per la capacità diffusa di interpretare l’autonomia.
Ci si indigna per gli stipendi d’oro nelle istituzioni, molto meno per la qualità di una classe dirigente che naviga a vista, incapace di immaginare scenari nuovi e strade inedite.
Perché proprio una strada originale fu quella che nel settembre 1946 portò il Ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber ed il suo omologo italiano (nonché Presidente del Consiglio dei Ministri) Alcide De Gasperi ad inventarsi – ai margini dell’accordo di Parigi – un protocollo di poche righe1 con il quale si apriva una pagina nuova nel contenzioso territoriale che spostava il confine di stato al Brennero. La capacità di innovazione politica (ed in particolare l’ancoraggio internazionale della questione sudtirolese) forse non valeva l’indennità che costoro ricevevano? Quanta demagogia…
Il problema è che oggi si eleggono spesso persone inconsistenti, talvolta condizionate da lobby che poi chiedono il conto, dove l’età e non l’esperienza sono importanti, dove il genere (uomo o donna che sia) viene prima delle competenze, dove la simpatia e non la serietà è la prerogativa cui affidare la gestione delle risorse della comunità, dove la fedeltà conta ben più dell’autonomia di pensiero.
Che questa crisi sociale e politica si manifesti in un contesto nel quale, dopo settant’anni, l’autonomia richiederebbe una forte capacità di ripensarsi nei nuovi scenari europei e dunque uno scatto di fantasia, è un problema serio.
Una riforma costituzionale che indebolisce l’autonomia
La seconda ragione che dovrebbe portarci a vivere con una certa preoccupazione questo anniversario è il suo coincidere con la campagna referendaria per la riforma costituzionale. Gli schieramenti del sì e del no si dividono a suon di accuse spesso sopra le righe, ma è paradossale che sulla questione a mio avviso più importante in gioco – la revisione del Titolo V della Costituzione – entrambi gli schieramenti la pensino grosso modo alla stessa maniera. Se ci fate caso, nei confronti televisivi del “Titolo V” praticamente non si parla se non per dire della pessima prova che gli amministratori regionali hanno dato di sé nelle numerose vicende di intreccio fra affari e politica. Se questa fosse la logica che fine avrebbero dovuto fare le istituzioni nazionali ai tempi di Tangentopoli?
Il timido passaggio di competenze verso il territorio previsto con la riforma del 2001 (ed in parte mai attuato come nel caso del federalismo fiscale) e prima ancora la definizione secondo la quale «la repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato»2, mettendo dunque sullo stesso piano le istituzioni centrali e quelle locali, rischia ora di venire smantellata dal convergere del populismo di strada e quello di governo. In un clima nel quale qualcuno in Parlamento pensa di ridisegnare l’assetto stesso delle Regioni attraverso un accorpamento che nel caso specifico del Trentino e dell’Alto Adige – Sud Tirolo ci vedrebbe collocati nella Regione Triveneto. Irresponsabili.
Fa piangere che tutto questo venga dal centrosinistra e che la politica locale pensi di cavarsela con delle norme di salvaguardia che si basano essenzialmente su un accordo politico privo di alcun valore giuridico costituzionale. Il carattere centralistico della riforma viene riconosciuto da tutti o quasi (lo zelo di certi rappresentanti è pari al loro grado di attaccamento al potere), ma ciò nonostante ci si affida alla capacità di condizionamento a fronte di una maggioranza parlamentare tanto debole nei numeri quanto estranea alle linee programmatiche con le quali si andò a votare nel 2013. E che, per sua natura, è a termine.
Il terzo statuto, idee cercasi…
Il terzo motivo di preoccupazione è legato all’avvio dell’iter che dovrebbe portarci al cosiddetto terzo statuto di autonomia. Cosa di cui si parla da tempo, ma che registra un vuoto sorprendente di idee per cui motivare – a quarantaquattro anni dal secondo statuto – un nuovo capitolo della nostra storia autonomistica. Tutti a parlare dell’importanza di questo passaggio, dell’occasione straordinaria per le nostre comunità, del valore della partecipazione e degli strumenti con cui arrivarci, molti a spintonarsi per far parte della Convenzione o della Consulta, ma in buona sostanza nessuno che provi a declinare le ragioni per cui serve un nuovo statuto di autonomia.
Al di là della retorica, il nodo è tutto qui. Perché se si trattasse di adeguare lo statuto di autonomia alle modifiche costituzionali in essere, sarebbe sufficiente un più rassicurante restyling di quello esistente.
Invece il tema da porre è il seguente: dopo il primo statuto che ha riconosciuto anche internazionalmente la specialità, dopo il secondo che ha reso possibile l’autogoverno attraverso una procedura dinamica di progressiva acquisizione di competenze (autonomia integrale), il terzo statuto dovrebbe essere improntato ad un nuovo contesto insieme territoriale e sovranazionale, nel quale il rapporto (e la negoziazione) sia più verso l’Europa rispetto a sovranità nazionali sempre più limitate. Ovviamente, richiederebbe un rilancio dell’Europa federale secondo il modello immaginato a Ventotene, il che purtroppo non corrisponde al segno del tempo, ma questa è la sfida dei prossimi decenni. Richiederebbe il configurarsi di macroregioni transnazionali, così come si è iniziato a fare con l’area baltica, quella danubiana o quella alpina, configurando relazioni a geografia variabile fra territori dotati di forti prerogative di autogoverno, non svuotati di quel po’ che sin qui è stato loro riconosciuto. Richiederebbe una comunità capace di “essere presente al proprio tempo”, cosa per niente scontata.
Temo che di tutto questo oggi non si parlerà. E che la retorica dell’autonomia prevalga ancora una volta sulle sue grandi ragioni.
1Vedi allegato
2Articolo 118 della Costituzione Italiana.