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Brexit, Nizza e Ankara. La fatica di capire

Ad essere più sotto attacco è quello che abbiamo chiamato a lungo “vecchio mondo” — Europa e Medio Oriente, da Lisbona ad Ankara, passando per Parigi e per Londra. Certo, anche in America il nuovo potrebbe presto annunciarsi con il profilo, non proprio rassicurante, di Trump. Ma finora i sussulti che la scuotono sembrano venire da lontano, dalle viscere del secolo scorso. Dall’Alabama a Dallas, in una storia che ha visto alternarsi Ku-Klux-Klan e Black Panthers, segregazione razziale e Martin Luther King. Sono fantasmi di ritorno di un antico conflitto, apparentemente sopito, ma in realtà sempre strisciante sotto le ceneri dell’integrazione.

In Europa, invece, con la sua propaggine anatolica, il mutamento ha le sembianze di un vero cataclisma. A collassare, prima dei confini geopolitici, sono le categorie che hanno segnato in profondo l’intero orizzonte della modernità fino a ieri. Proviamo a mettere in fila gli eventi: Brexit, Nizza e Turchia sono le tre onde d’urto che, a distanza di qualche giorno, vanno sconquassando il paesaggio storico e mentale che abbiamo a lungo percepito come nostro.

Brexit. È vero che il Regno Unito non è mai stato il Paese più europeista. È vero che la sua opzione atlantica è antica quanto l’opposizione simbolica tra terra mare. È vero, insomma, che la Gran Bretagna non ha mai smesso di sentirsi Isola — fieramente autonoma rispetto al Continente. Ma è anche vero che il vascello che negli anni Quaranta del secolo scorso ha salvato l’Europa dai suoi demoni interni rompe gli ormeggi, salpando verso una destinazione ignota. Ignota per l’Europa, che perde un suo pezzo per molti versi insostituibile, insieme alla sua maggiore potenza militare. E ignota anche al suo equipaggio, che ancora guarda, smarrito, la terra da cui si stacca senza sapere a quale porto approdare.

Nizza. Certo, si è trattato dell’ultimo colpo di una deriva terroristica in atto da almeno quindici anni. Ma anche di un salto di qualità nella furia distruttiva che lascia senza parole. Non solo per la ferocia ottusa del terrorista, ma anche per l’anomalia della sua figura. Inassimilabile sia a quella, ormai scomparsa, del partigiano, sia a quella del soldato della fede. Diversa da l’una e dall’altra, la sua sagoma si perde nell’insensatezza assoluta della morte per la morte. Se si pensa che l’attentatore ha fatto un numero di vittime pari a quelle prodotte dal gruppo di fuoco organizzato al Bataclan con un camion noleggiato per poche centinaia di euro, lo scarto appare netto. L’escalation nichilistica senza paragoni. Tale da rendere ancora più spettrale il panorama che abbiamo di fronte e più indistinto il nemico da combattere.

Infine la Turchia. Nel golpe dell’altra notte — vero o falso che sia: le due cose nella società dei nuovi media si accostano sempre più — va in frantumi una categoria alla quale, almeno in Occidente, eravamo particolarmente affezionati — quella di democrazia liberale. Dobbiamo abituarci a pensare che questi due termini non vanno necessariamente insieme. Che può esistere, a est del Bosforo, una democrazia illiberale e anzi decisamente autoritaria. Non troppo diversa, del resto, da quella russa con cui da tempo è in concorrenza nella stessa area. Dobbiamo constatare che una tale democrazia può inglobare, funzionalizzandolo al potere del suo capo, perfino un putsch militare. Il quale anche, del resto, si è richiamato alla democrazia. Come democratici sono presentati dai seguaci di Erdogan i mezzi repressivi impiegati in queste ore alla luce del sole e nel buio dei sotterranei.

Ce n’è abbastanza per dire che un intero universo concettuale sta andando in pezzi. Nessuno dei parametri validi fino al secondo Novecento funziona più nella globalizzazione e nella politica della vita e della morte. Dove i corpi umani sono usati come bombe esplosive e il web appare l’unico spazio praticabile del confronto pubblico. Tutto ciò non può non allarmare. Ma, se vogliamo rispondere efficacemente alla sfida in atto, dobbiamo attrezzarci a modificare rapidamente il modo di rapportarci al nostro tempo — di affrontare le sue minacce e di adoperare le sue risorse.

* L’autore è professore di Filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa (commento apparso su la Repubblica del 20 luglio 2016)

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