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sabato, 23 gennaio 2021

Nella presentazione di un libro si possono ritrovare i tratti di un percorso di ricerca culturale, politico e per certi versi anche esistenziale? Credo proprio di sì.

Mi spiego così il sentimento di emozione che ho provato l’altra sera nell’incontro (quand’anche in streaming) con Mauro Ceruti, cui hanno partecipato Giulia Casonato, Franco Ianeselli e Federico Zappini, per la presentazione del libro Abitare la complessità (Mimesis, 2020).

Come una sorta di approdo di quella comunità di pensiero – di cui ho spesso parlato negli ultimi mesi – che nasce lontano, per chi scrive dal momento in cui ho avuto la percezione che i vecchi strumenti di ordine interpretativo e molte delle categorie concettuali della sinistra fossero diventati in buona misura inservibili.

Un percorso che intreccia i tanti rivoli di una ricerca nella quale riconoscevo, al di là dello spazio e del tempo, i pensieri laterali, le eresie politiche, i sincretismi o anche più semplicemente l’interrogarsi esigente di vicende individuali e collettive.

Come se il pensiero potesse annodare un immaginario filo conduttore che accomuna Walter Benjamin e Hannah Arendt, Nicola Chiaromonte e George Orwell, Silvio Trentin e i federalisti europei di Ventotene, Albert Camus e il pensiero meridiano di Franco Cassano, Adam Micnik e Samir Kassir e le tante primavere inascoltate del Novecento da Praga a Beirut, Nicolas Georgescu Roegen e gli studiosi del Club di Roma che avevano intravisto sin dagli anni ’70 del secolo scorso il delirio di uno sviluppo senza limiti… ed altri ancora come la comunità nata attorno alle riflessioni di Edgar Morin di cui ci siamo sentiti parte in quel passaggio cruciale che segnò la fine di una storia e che – nella retorica del centenario dalla nascita del Partito Comunista d’Italia – si annovera come la catastrofe.

Era il 29 aprile 1994 quando come Solidarietà – associazione politica nata proprio nelle ore in cui cadeva il muro di Berlino – presentammo a Trento il libro di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti Solidarietà o barbarie (Raffaello Cortina editore, 1994). Incombeva la tragedia jugoslava, tanto difficile da comprendere se non attraverso uno sguardo capace di fare i conti con il Novecento. E quel libro ci offriva una chiave di lettura che faceva incontrare l’elaborazione del passato e una prospettiva sovranazionale: «la pulizia etnica in tutta la storia d’Europa – scrivevano gli autori – non è stata l’eccezione, ma una norma».

La chiave era dunque l’Europa politica. Ci lavorammo, tanto sul piano dell’elaborazione dei conflitti come nella nascita dell’Osservatorio sui Balcani (poi OBC – Transeuropa). Grazie al comune amico Ugo Morelli intrecciammo un dialogo più o meno a distanza, uno spazio fisico e mentale, una comunità politica nel suo significato più profondo che ci avrebbe aiutati ad essere presenti al nostro tempo. Non un partito, ma una traiettoria politica che ci ha fatti sentire meno soli e che ancora ci appare generativa.

Ed ora, ventisette anni dopo, questo libro. Abitare la complessità è parte integrante di questa generatività politica, nel suo proporci una straordinaria cornice di quel cambio di paradigma di cui da tempo andiamo parlando e in assenza del quale vivremo come naufraghi il passaggio d’epoca cui assistiamo: la complessità.

Dovrebbe venire da sé, ma non è affatto così. Pesano secoli di pensiero semplificato dove le connessioni del sapere sono state costrette nei vincoli di discipline incapaci di dialogare e di intrecciarsi. Pesano i vecchi paradigmi della cultura positivista, che il libro di Ceruti e Bellusci affronta a partire dal mantra del progresso, quell’idea «di controllo e di impossessamento della disponibilità del mondo» che ha segnato (e ancora segna) la modernità nel considerare l’uomo come padrone assoluto della Terra.

Eppure oggi sappiamo che questa presunzione è errata ma soprattutto alla radice di un rapporto malato fra uomo e natura che ci ha portati sull’orlo dell’abisso. L’uomo non è che un’infinitesima parte della natura, ovvero delle cose che nascono. Come ci spiega il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, a fronte di un peso complessivo degli esseri viventi sul pianeta di circa 550 Giga tonnellate (Gt – miliardi di tonnellate) di carbonio, quello di tutti gli animali è di 2 Gt (lo 0,36%) e quello specifico dell’uomo è di 0,06 Gt (lo 0,01%)1. Senza dimenticare che l’uomo ha bisogno per vivere delle piante e degli altri esseri viventi, ma non viceversa.

«La Terra è un unico sistema dinamico complesso, autoregolato, con componenti fisiche, chimiche, biologiche e umane. Il cambiamento causato dall’uomo è un processo complesso, cioè multidimensionale, che perciò richiede una spiegazione multicausale, in grado di intrecciare cambiamenti sociali, politici ed economici umani con le loro diverse conseguenze ambientali, fisiche, chimiche, geologiche, su scala locale e globale. A causa di questo groviglio natura e società sono diventati una cosa sola. Con l’Antropocene, la distinzione tra storia umana e storia naturale… è finita per sempre»2.

Lo possiamo scorgere ovunque, nella crisi climatica, nella progressiva perdita delle biodiversità, nella desertificazione dei suoli, negli effetti migratori, nell’abbandono della montagna e della terra … Lo vediamo anche nell’ostinarsi a considerare la pandemia in corso come una sorta di emergenza a sé stante senza comprendere invece che siamo in presenza di una sindemia, ovvero di un intreccio di crisi di natura sociale, ambientale, alimentare e sanitaria. Tanto è vero che se ne affida l’uscita ai vaccini e all’immunità di gregge, trattando questa crisi separatamente dal modello di sviluppo che l’ha generata.

Uno sguardo, quello che ci propone Mauro Ceruti, che interroga la politica sulla sua capacità di darsi il tempo, di uscire dalle logiche emergenziali, di leggere gli avvenimenti con discernimento, di impostare una propria agenda politico amministrativa con gli occhi della complessità. Temi sui quali nel dialogo si sviluppa il confronto con il sindaco di Trento Franco Ianeselli e con la giovane consigliera comunale Giulia Casonato, a testimoniare come un libro sul paradigma della complessità possa essere non una parentesi colta nella fatica del prendersi cura quotidiano della vita di una città, bensì uno sguardo strabico che ci aiuta ad affrontare le nostre scelte – dagli investimenti infrastrutturali alle scelte culturali – interrogandoci sulle conseguenze che esse determinano in un corpo sociale. Scegliendo di starci nella complessità, facendone una bussola ed imparando ad educare ed educarci al pensiero complesso. Forma e pratica, per riprendere le parole di Giulia, di ecologia politica.

E’ questo, a ben guardare, lo spazio che intende proporsi la scuola degli spiazzi.

PS. Se non avete avuto la possibilità di assistere all’incontro lo potete trovare qui: 

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