mercoledì 24 giugno 2009
8 Novembre 2019venerdì, 13 dicembre 2019
26 Dicembre 2019Diario palermitano… e non solo
Palermo, dicembre 2019. Tre giorni non sono niente per visitare e cercare di capire una città come Palermo. Nella quale peraltro sono stato molte altre volte, ma senza mai con l’intenzione di entrare in questa città, nella sua storia e nella sua comunità. Come se qualcosa me la facesse sentire ostile.
Devo dunque ringraziare gli amici di Tulime1: è grazie a loro se negli ultimi anni mi ci sono avvicinato un po’ di più, per quanto di fretta. Forse, anzi certamente, sono cambiati i miei occhi, il mio sguardo si dispone diversamente dal passato. Così in quest’ultima occasione, un po’ per le persone che ho incontrato, un po’ girovagando nei quartieri del suo centro storico, un po’ perché più ci si addentra nel Mediterraneo il fascino di questi luoghi carichi di storia e di umanità ti avvolge, ho trovato Palermo una città particolarmente avvolgente e mi è venuta voglia di ritornarci. Ne parlo in questo piccolo diario palermitano.
Da qualche anno e grazie ad un libro che ha fatto nascere sintonie profonde, con Francesco Picciotto abbiamo avviato un dialogo che è diventato amicizia. E quando, un paio di mesi fa, mi ha chiamato proponendomi di stare per qualche giorno nella sua città per una serie di conferenze e incontri in Università, presentare il libro Sicurezza, riprendere le fila di un itinerario siciliano e mediterraneo del “Viaggio nella solitudine della politica”, mi sono messo a disposizione.
Dall’ultima volta che ero stato a Palermo sono passati un paio d’anni abbondanti. Anche allora su invito degli amici di Tulime che della cooperazione di comunità hanno fatto il loro modo di relazionarsi con il mondo, cercando di “darsi il tempo” per interrogarsi sulla sostenibilità del loro modo di pensare e di agire. Qualche mese prima (era l’ottobre del 2016) sempre su loro invito ero stato ad Alcamo (TP), per partecipare all’assemblea nazionale della loro associazione proponendo loro una riflessione attorno al libro di Luca Rastello “I Buoni”, una vera e propria sferzata verso un mondo – quello della cooperazione e della solidarietà – così incline a separare fini e mezzi, ovviamente in nome del bene.
Nella mia ultima visita avevamo anche avuto un incontro attorno al “Viaggio nella solitudine della politica” che stavamo iniziando, ma in quella circostanza mi scontrai con vecchie ferite e qualche pregiudizio che la politica ha lasciato nel sentire di chi ci ha creduto. E, malgrado un confronto tutt’altro che banale, non se ne fece niente.
Due anni dopo sono ancora qui, in primo luogo per l’invito rivoltomi dal Dipartimento Cultura e Società dell’Università degli Studi di Palermo in un convegno di tre giorni che ha come titolo “Le professioni della cultura” dove sono coinvolto in due sessioni: una tavola rotonda dal titolo “Ricucire gli strappi: la relazione come cura e progetto. Orizzonti per una didattica inclusiva” e, il giorno successivo, per un incontro con gli studenti e le studentesse dei corsi di laurea: “Guardare lontano, guardare attraverso. Il border crossing delle professioni”.
E poi in programma è prevista anche una nuova presentazione di “Sicurezza”, questa volta nel cuore di Palermo (al Capo) presso il Bistrot “le Angeliche”, ristorante di grande bellezza e qualità gestito da un gruppo di donne, prima di una serie di incontri a cadenza mensile a partire dalla domanda “Ho bisogno di …?” che spazieranno fra i grandi temi del nostro presente.
Fra un incontro e l’altro ho l’opportunità di uno sguardo da vicino dei quartieri del centro storico che mantengono ancora vivi i loro caratteri popolari, fra vecchie attività artigianali, negozietti che sembrano usciti da un qualche film neorealista degli anni ’50, locali e osterie storiche affollate.
Ma cominciamo con la prima tavola rotonda, dove intervengono oltre a chi scrive anche Rita Affatigato, Serena Marcenò, Maria Chiara Monti e Francesco Picciotto. Ad affollare la sala, i rappresentanti di diverse associazioni di volontariato internazionale e numerosi/e studenti e studentesse universitarie. Il carattere della tavola rotonda è piuttosto informale, la conversazione ruota attorno al concetto di relazione che è il cuore della cooperazione di comunità come lo dovrebbe essere del servizio sociale. Posso immaginare come vi sia una qualche attesa verso il mio intervento, considerato che attorno a questo approccio (la cooperazione come relazione) con Mauro Cereghini abbiamo sviluppato le tesi di “Darsi il tempo”, un libro che continua – nonostante sia uscito undici anni fa – a fare scuola.
Fra me e la cooperazione internazionale negli ultimi anni ho messo una certa distanza. Una distanza cresciuta nel tempo, proprio per i suoi tratti invasivi se non proprio neocoloniali e per l’assenza di un orizzonte alternativo al dilagante modello neoliberista. Non per questo intendo dissuadere i presenti dall’idea di considerare il terreno della cooperazione internazionale come un possibile ambito professionale, anzi. Ma nemmeno essere reticente sulla deriva profonda di una cooperazione che ha smarrito gran parte della sua capacità di andare all’origine delle contraddizioni – che siano esclusione sociale, impoverimento, guerre o semplicemente consapevolezza dell’interdipendenza – che ne motivano l’agire.
Le nostre tesi di allora (2008) sulla crisi della cooperazione internazionale non solo hanno avuto conferma ma la realtà nel frattempo è andata oltre, tanto nella deriva di natura emergenziale quanto nel suo carattere “umanitario”. E se oggi decidessimo di rimettere mano a quel testo lo dovremmo fare in maniera ancor più radicale, nella diagnosi come nella terapia di un corpo (quello della cooperazione internazionale) malato e aggrappato alla logica degli aiuti allo sviluppo.
Non si tratta di dare un giudizio morale sull’efficacia della cooperazione e ancor meno sull’agire delle persone che ne sono coinvolte, ma di andare alla radice del problema, quella che già allora individuammo come questione cruciale, la crisi di sguardo ovvero l’inadeguatezza delle categorie analitiche per descrivere un mondo in profonda e rapida trasformazione e la necessità di fare i conti con i paradigmi del secolo scorso.
Paradossalmente, c’è oggi ancora più bisogno di prima di costruire relazioni globali che ci permettano di “stare al mondo”. E di dotarci nel tessuto sociale ed istituzionale di operatori di comunità in grado di intessere relazioni che, nella reciprocità, sono la condizione ineludibile per essere all’altezza delle sfide della postmodernità. Concetto che riprenderò il giorno successivo a proposito del border crossing, quel confine poroso nel quale svanisce il di qua e il là.
Chissà che prima o poi non valga la pena riprendere in mano questo filone di ricerca che, a ben guardare, in realtà non abbiamo mai smesso di osservare (anche se certamente di praticare).
Apro qui una parentesi. In queste settimane si dibatte molto in Trentino sulla scelta da parte del governo a guida leghista della Provincia Autonoma di Trento di tagliare i fondi della cooperazione internazionale. Con quel che significa anche per il Centro per la Cooperazione Internazionale dove sono incardinati come proprie unità operative le Competenze per la società globale (la formazione) e l’Osservatorio Balcani Caucaso – Transeuropa, minandone il futuro. Una scelta miope e sbagliata, ma certamente coerente con il voto dell’autunno 2018 e con l’idea maggioritaria che – con la logica del chi vince piglia tutto – comporta l’attuale scasso istituzionale. Quante volte avevo detto alle precedenti maggioranze di mettere al sicuro, almeno per quanto possibile, le nostre eccellenze sul piano della ricerca e della formazione… realtà che si reggono sul lavoro delle persone coinvolte, capaci di attrarre risorse dalle istituzioni mondiali ed europee e che ora vengono messe in ginocchio.
Per onestà intellettuale non posso non riconoscere che se questo non è stato fatto è grazie a chi, a prescindere dalla propria collocazione politica, queste eccellenze non le ha nemmeno sapute riconoscere, tanto erano chiusi nella propria insipienza e nelle logiche padronali di gestione di quel che andavano finanziando. Che andrebbero considerate patrimonio di un territorio, non di qualcuno in particolare.
Analogamente faccio fatica a riconoscere il mondo del volontariato internazionale del quale queste eccellenze sono state espressione (così nacquero nel 1993 l’UNIP2 e nel 1999 Osservatorio Balcani3), un mondo che negli ultimi anni sembra aver progressivamente smarrito la propria autonomia politica e progettuale (oltre alla consapevolezza del proprio percorso), in un’involuzione dove è di nuovo la logica degli aiuti (o semplicemente della carità) a costituire l’orizzonte del cooperare, come se il nostro modello di sviluppo e di consumo non avessero nulla a che fare con le ragioni dell’esclusione. Mi chiedo quanto siamo stati capaci di imprimere – con le nostre riflessioni, con vent’anni di attività di formazione, con le stesse esperienze di cooperazione di comunità che cercavano di coinvolgere le articolazioni comunitarie più diffuse – un esito diverso. So bene come abbia dovuto difendere l’attività del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani o di OBC dalla mediocrità (e dal provincialismo) di gran parte della mia stessa maggioranza. E tutto questo non è certo motivo di conforto.
Questo senza togliere nulla alla gravità dei tagli della nuova amministrazione provinciale. Ma guardarsi dentro, interrogarsi, riflettere sul senso di quel che si sta facendo è cosa che non dovrebbe mai venire meno nelle nostre associazioni come in ciascuno di noi. Chiusa la parentesi.
Eppure sono qui, a Palermo, dall’altra parte di questo paese, a parlare di cooperazione di comunità. Trovando quell’attenzione che altrove, nel cinismo dei “progettifici”, s’è andata smarrendo. Tanto che, nel dibattito che dà seguito alle riflessioni dei partecipanti alla tavola rotonda, un giovane africano arrivato in Sicilia con i barconi (e che ora si sta laureando proprio su questi temi) interviene per dire che si è riconosciuto completamente nelle mie parole. Così che alla fine dei lavori riprenderemo la nostra conversazione, scambiandoci indirizzi ed anche una dedica su una copia di “Darsi il tempo” con la promessa di scriverci nel merito. Ma scorgo anche qui, negli interventi dei rappresentanti di molte delle associazioni presenti, la stessa incapacità di riflessione che ho trovato altrove. Tutto ruota attorno alle emozioni, agli interventi di emergenza, ai progetti … come se si trattasse di un gioco, per qualcuno a cui si sarebbe giocato poco, per altri infinito. Così, nell’incapacità di avere uno sguardo lucido e onesto prima di tutto con se stessi, nella fatica di mettersi in discussione, la crisi non sa trovare risposte.
Il mattino seguente è l’occasione per parlare in maniera più approfondita di questa incapacità di osservazione che investe sia il mondo della cooperazione internazionale che dell’azione sociale. Con la fine di una storia che potremmo datare 1789 – 1989 si è conclusa anche una narrazione fatta di paesi poveri e ricchi, di sviluppo e di sottosviluppo (e delle coordinate geografiche che la rappresentavano), di paesi in via di sviluppo e di aiuto allo sviluppo, di donatori e beneficiari, di sovranità e di autodeterminazione, di progresso e conservazione. Un altro mondo e ci siamo smarriti.
Capisco bene come le parole e lo sguardo che propongo possano essere un frullatore del mondo precedente che destabilizzano chiavi di lettura non solo consolidate ma tutto sommato anche comode, tanto per chi sta da questa parte e intende far parte del mondo dei buoni, quanto per chi sta dall’altra e che dai rituali della cooperazione (e dei servizi) trae la propria condizione di (per quanto relativo) privilegio.
So che le mie argomentazioni vanno oltre i confini degli ambiti formativi che qui, nell’aula magna del Dipartimento Culture e Società di Palermo, prendiamo in esame. Lo “stare al mondo” di cui parlo prova un diverso racconto di un tempo nuovo nel quale compaiono “nuove geografie”, dove i nazionalismi sono funzionali all’offshore, dove i confini coltivano il mito mentre gli affari corrono lungo i corridoi della Gazprom, dove all’abbandono della campagna e delle montagne corrisponde il prendere corpo di enormi megalopoli nel quale il confine fra legalità e illegalità diviene oltremodo indecifrabile, dove i cambiamenti climatici producono enormi esodi di popolazioni ma all’insegna del prima noi, ovvero i nuovi pogrom del XXI secolo.
Così, nell’interdipendenza, la costruzione di relazioni è la modalità di abitare il presente. Nella cooperazione internazionale come nell’azione sociale. Non cooperanti, ma animatori di comunità connesse e interdipendenti. Non so se gli studenti che affollano l’aula magna si aspettassero un approccio del genere e se sono riuscito nell’intento di perturbare i luoghi comuni e gli stanchi rituali del mondo dei buoni. Che, nella loro autoreferenzialità, sanno essere di una banalità sconcertante. Quando non cinici e cattivi.
Parlo ad un pubblico di studenti che immagino motivati ed anche ai loro docenti, immaginando che se mi hanno fatto venire fin qui significherà pur qualcosa. Confido nel fatto che questo diverso approccio possa trovare continuità di ricerca e didattica. Di questo ho rassicurazione da parte della nostra moderatrice, la professoressa Serena Mercenò, che sento (grazie alla sua introduzione ma prima ancora alla lettura del suo “Critica alla cooperazione neoliberale”, Mimesis edizioni, 2018) sulle mie corde. Le sensazioni sono positive.
Cambiamo scenario. Siamo a pranzo al Bistrot Le Angeliche, al Mercato del Capo. Un posto bellissimo, gestito con cura da un gruppo di donne, che vi consiglio caldamente quando sarete a Palermo. Con Serena Mercenò, Patrizia Spallino e Francesco Picciotto parliamo dell’itinerario siciliano/tunisino del Viaggio nella solitudine della politica. E, dall’entusiasmo che riscontro, mi sa che questa volta ci siamo. Per il momento posso solo dire che il cuore di questo itinerario dovrebbero essere gli intrecci e i capovolgimenti, l’influenza della cultura araba e i sincretismi che la storia ha prodotto nel Mediterraneo, i flussi degli uomini e delle cose attraverso le sponde di questa grande isola di mezzo e la Tunisia, paese che oggi forse anche per questo si conferma come uno straordinario laboratorio culturale e politico. Avremo modo di parlarne.
E proprio le Angeliche, qualche ora più tardi, saranno la cornice della presentazione del libro “Sicurezza”, un lavoro che continua a rappresentare il pretesto per un confronto politico che la politica non sa realizzare. Tiro fuori le ultime energie (devo riconoscere che dopo due giorni di incontri e seminari mi sento un po’ prosciugato) ed anche in questa occasione il libro scritto a quattro mani sempre con Mauro Cereghini (sodalizio che ho tradito nell’ultimo libro che sta per uscire attorno alla tempesta Vaia e agli effetti dell’agire umano sul Pianeta Terra) si rivela l’occasione per uno sguardo lungo sul nostro presente.
E poi finisce qui, perché i dolci delle Angeliche meritano uno spazio a parte. Oddio, anche gli arancini che la tradizione propone nel giorno di Santa Lucia. Spettacolari. Un profumo che avverto anche il mattino seguente per le strade attorno alla piazza della Borsa, nell’antica focacceria San Francesco o alla pasticceria Palazzolo di Cinisi dove con Francesco ci fermiamo prima di prendere l’aereo per tornarmene verso casa. Questione di sincretismi.
1 Tuline è una è un’associazione che promuove progetti di solidarietà e cooperazione di comunità in diverse parti del mondo… Ad oggi le aree di intervento coinvolgono le popolazioni di Tanzania, Uganda e Nepal.Attraverso la pratica della cooperazione di comunità, che mette al centro dell’azione la collettività anziché il singolo individuo, l’associazione offre supporto all’agricoltura e all’allevamento sostenibile. Sostiene, inoltre, progetti di microcredito, per la tutela dell’ambiente, di mercato equo-solidale per favorire lo sviluppo dell’artigianato locale e interviene in difesa dei diritti umani. Tulime Onlus negli anni ha sviluppato anche programmi permanenti a favore dell’infanzia, degli individui con disabilità e rivolti in generale alle fasce più vulnerabili della società.
2 Si tratta dell’Università internazionale delle istituzioni e dei popoli per la pace. Nata nel 1993 a Rovereto presso la Fondazione Opera Campana dei Caduti dopo quindici anni è diventata Centro di formazione alla solidarietà internazionale con sede a Trento e in seguito Centro per la Cooperazione Internazionale.
3 Oggi Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa, il più importante portale di inchiesta e ricerca su questa parte di Europa