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2 Aprile 2019
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domenica, 26 maggio 2019
26 Maggio 2019
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martedì, 9 aprile 2019

Reggio nell’Emilia. Biblioteca Panizzi. Un sabato mattina di aprile. Un manifesto ben visibile in città che richiama l’Europa al femminile. Una sala di donne. Riflessioni esigenti. Solitudine.

Malgrado il pensiero sia inevitabilmente rivolto a quel che accadrà il 26 maggio, forse le elezioni più difficili da quando si vota per il Parlamento europeo, nel confronto sull’Europa che si svolge nell’antica sala del Planisfero non c’è nulla di elettorale.

Certo, la preoccupazione di un ulteriore duro colpo al disegno politico europeo è nell’aria, ma le riflessioni che vengono proposte non sfiorano nemmeno il destino di questa o quella formazione politica, tanto meno quelli personali che pure occupano larga parte dello spazio politico.

Può sembrare strano ma si parla di Europa. Di un orizzonte politico che fatica a diventare progettualità, di una nuova era geologica – l’antropocene – che affonda le sue radici nel delirio prometeico dell’homo faber, di stili di vita banali diventati irrinunciabili, di mancanza del senso del limite e di “distacco dalla terra”, di cura. Delle “madri fondatrici” anziché dei “padri fondatori”. Di un universo maschile che “estende” diritti a quello femminile.

In questa cornice, propongo qualche sguardo. Quello di un’Europa che prende il nome da una donna e che nasce al di fuori di sé, in quella “mezzaluna fertile” di quel mare imprescindibile nel formarsi di un’identità europea allergica ai confini, in conflitto “fra meriggio e mezzanotte”, sempre in divenire. Quello di uno spazio di incontro fra civiltà che ne ha segnato la storia, che si vorrebbe costringere nelle tradizioni giudaico cristiane (che ne sono solo una parte) in contrapposizione con altre che invece si vorrebbero cancellare perché ci raccontano di quando il centro del mondo era ad Oriente. E di un debito di conoscenza che nessun rogo, né quello seguito al decreto dell’Alhambra (1492), né quello della Vijesnica (1992) potranno rimuovere. Quello di un “Breviario Mediterraneo” che avrebbe ben meritato il Nobel per la letteratura nel suo raccontare degli intrecci di culture, saperi, cibo, parole, che poi era all’origine di quella lingua del Mediterraneo (“lisan al-farangi” la chiamavano gli arabi, letteralmente “lingua europea”) che per quasi sei secoli ha accompagnato le relazioni e i commerci fra le sue diverse sponde e scomparsa sotto i colpi del delirio nazionalistico del XX secolo. E, infine, quello che non abbiamo saputo leggere nei tragici avvenimenti che hanno insanguinato il cuore balcanico dell’Europa e che ci avrebbe potuto aiutare a comprendere con un quarto di secolo di anticipo la devastazione sovranista di questi tempi e altro ancora.

«Abbiamo visto molto, e non ci siamo accorti di niente» scrive Robert Musil nell’immediato primo dopoguerra. Parole che appaiono quanto mai attuali un secolo dopo. Così l’idea di Europa si è andata appassendo e l’immenso archivio Mediterraneo è diventato – come ebbe a scrivere l’amico Predrag Matvejevic – un profondo sepolcro.

Il fatto è che se vogliamo dare una nuova possibilità all’Europa (e al pianeta) andrebbe conosciuta ed elaborata la storia e andrebbero messi in discussione i paradigmi che per almeno due secoli hanno segnato la modernità: il progresso, lo sviluppo senza limiti, lo stato nazione, la guerra come levatrice della storia, il lavoro che “rende liberi” (come sta scritto all’ingresso di Auschwitz), l’antropocentrismo.

Ci sarebbe un nuovo racconto da scrivere. Ed invece assistiamo da un lato alla fine dell’umanesimo intrinseco nello slogan del “prima noi”, dall’altra al vuoto pneumatico che pensa quello che abbiamo come il migliore dei mondi possibile. Il passaggio che ci porta al voto del 26 maggio è in buona sostanza già scritto, come del resto il suo esito. Che in questi mesi di maggiore attenzione all’Europa possa emergere un diverso racconto, come a testimoniare di una ricerca originale oggi forse non rappresentata ma non per questo meno importante, lasciamoci una piccola possibilità. Se non altro ci aiuterebbe – come è stato nell’incontro di Reggio Emilia – a farci sentire meno soli.

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