venerdì, 1 febbraio 2019
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Modena, 28 marzo 2019
venerdì, 29 marzo 2019
29 Marzo 2019
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mercoledì, 6 marzo 2019

Presentare due libri in una volta sola è inusuale. Ma il dialogo fra gli autori di “Nel labirinto delle paure” (Bollati Boringhieri, 2018) e “Sicurezza” (Edizioni Messaggero, 2018) è qualcosa che prosegue da tempo e questi diversi sguardi attorno al tema dell’incertezza del presente potevano ben intrecciarsi in una comune ricerca, tanto sul piano del pensiero come su quello dell’azione.

E così quella che si è svolta venerdì 1 marzo alla libreria Due punti a Trento non è stata semplicemente una presentazione intrecciata di due lavori editoriali e nemmeno la descrizione del cupo presente, bensì il tentativo di interrogarsi su quali strade per uscire da quel labirinto che ha dato il titolo al saggio di Aldo Bonomi e di Pierfrancesco Majorino. O, per riprendere la metafora proposta da me e Mauro Cereghini nel nostro “discorso politico” sulla sicurezza, come «disincagliare le ali all’angelo della storia».

Sin nell’introduzione al confronto, è stato proprio questo il nodo posto da Federico Zappini, fra l’onda lunga del vento sovranista che ovunque spira in Europa e il bisogno di definire i tratti di un racconto diverso senza il quale la risposta si riduce alla mera resistenza verso la barbarie che cresce intorno a noi.

Proprio Pierfrancesco Majorino, assessore al Comune di Milano e fra i principali promotori della manifestazione “Prima persone” che sabato scorso secondo diversi opinionisti ha dato il là al riscatto della solidarietà, a conclusione del suo saggio indica alcune strade per uscire dal labirinto: ripartire dalle belle bandiere; stare nel mezzo, fare società, cercare gli impauriti; realizzare progetti radicali per il riscatto sociale; governare l’immigrazione senza farsi prendere dal panico; rimettere al centro il discorso sul futuro. Perché la casa è comune.

Titoli accattivanti, nei quali ci si può riconoscere, alcuni dei quali hanno rappresentato un tratto stesso del mio impegno sociale e politico. Penso in particolare a quel “mettersi in mezzo” che era l’essenza dell’abitare i conflitti e della cooperazione di comunità. Ma le belle bandiere, ovvero i valori, sono spesso diventate parole vuote e banalizzate; lo stare dalla parte della gente (il riscatto sociale) quando anche il grado della povertà può diventare la ragione del “prima noi”; il governare l’immigrazione che ai tempi del centrosinistra si risolveva nel far sparire i barconi ma non le ragioni profonde (guerra, spogliazione delle risorse e cambiamento climatico) che generano la necessità di emigrare.

Non basta «tornare sui ballatoi del Corvetto», sempre utile per comprendere la fatica del vivere; ma se il tema è quello di uscire dal labirinto richiede una condizione: quella di avere un racconto, un discorso sul futuro che se vuole essere tale deve proporsi il cambio dei paradigmi di un tempo finito. Perché se il “non più” è abbastanza chiaro, il “non ancora” stenta a manifestarsi. Il fatto è che la barbarie è un racconto semplice e accattivante. E cattivo. Chi vi si oppone è quel che c’è, perché in fondo nel labirinto se si è dalla parte degli inclusi ci si può anche accomodare.

Pensiamo alla categoria di “progresso”, utilizzata in questi anni dall’Occidente per giustificare guerre e atrocità di ogni tipo, magari associata ai diritti civili. E che oggi viene non casualmente rispolverata per il sostegno al TAV, nell’ipocrisia di un trasporto su rotaia in Italia colpevolmente ridotto a percentuali inferiori al 10%.

Un discorso sul futuro che deve avere il coraggio di dire la verità su come stanno le cose, ovvero che viviamo nell’insostenibilità, in Italia e in Europa più che altrove. E che se vogliamo davvero prendere in considerazione l’appello di Greta1, l’unica strada percorribile è quella di riconsiderare l’attuale modello di sviluppo, terribilmente vincente sul piano culturale ma che ci ha portati sull’orlo del baratro o forse anche oltre.

Se continuiamo a ragionare con i vecchi paradigmi, saremo prigionieri del progresso e della crescita, ancorati alle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo; alla subalternità dell’uomo alle cose, misurando il benessere sul possesso di beni e sul denaro per averli; alla cornice degli stati-nazione che hanno segnato la tragedia del Novecento con il “prima noi”, quel sovranismo che continua a segnare anche questo tempo e dal quale – in assenza di elaborazione collettiva – rinascono il razzismo e il fascismo; all’idea antropocentrica dell’uomo signore del mondo, cui piegare la natura; allo scontro di civiltà, come se la storia non ci avesse insegnato che ogni sapere è l’esito dell’attraversamento e dell’incontro; all’abbandono della terra (e della montagna) e al contestuale crescere a dismisura delle megalopoli, paradigma di un immaginario artificiale e plastificato. E così via.

Aldo Bonomi insiste sulle isole che accolgono i naufraghi, le buone pratiche che ci aiutano a sopravvivere nell’imbarbarimento delle politiche ma anche dei comportamenti. Per parte mia, sulla necessità di un nuovo approccio che, proprio a partire dall’elaborazione del passato, faccia della cultura del limite la propria stella polare. Senza il quale la politica non potrà che assecondare l’insostenibilità e senza il quale anche le buone pratiche saranno all’insegna del “non nel mio giardino”.

Venerdì scorso, durante la presentazione incrociata di due libri utili per cercare di essere presenti al proprio tempo, non c’era ancora tutta questa euforia per l’esito delle primarie del Partito Democratico. Che animale strano è l’uomo, il cui spirito di adattamento davvero non ha limiti. Aggrappandosi ad ogni cosa pur di non naufragare, senza interrogarsi delle ragioni del naufragio.

Mein Flügel ist zum bereit,

ich kehre gern zurük,

denn blieb ich auch lebendige Zeit,

ich hätte wenig Glück2

 

Gerhard Scholem,

Gruss vom Angelus

 

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