
martedì, 11 maggio 2010
11 Maggio 2010
venerdì, 14 maggio 2010
14 Maggio 2010Sveglia alle 4.15, una doccia e via, in auto verso Macerata. Sono quasi cinquecento chilometri ma non mi pesano più di tanto, sono abituato ad itinerari ben più impegnativi e poi stare da solo in auto rappresenta uno spazio per pensieri in libertà oppure, più prosaicamente, per le decine di telefonate che non sono riuscito a fare. Arrivo puntuale nella bella città marchigiana che scopro, seppur sommariamente, per la prima volta. All’Università mi aspettano le altre due relatrici e un folto gruppo di studenti, per lo più ragazze, il che è normale quando si parla di cooperazione internazionale.
Le relatrici che intervengono prima di me affrontano due temi importanti: il quadro istituzionale che regola la cooperazione internazionale ovvero i meccanismi del diritto internazionale e gli attori per le diverse tipologie di cooperazione; la cornice filosofica che fa da sfondo alla cooperazione, in altre parole il concetto di giustizia globale. Il loro taglio è piuttosto in sintonia con quel che andrò a dire, soprattutto nel porre l’accento sull’impostazione economicistica che la logica dell’"aiuto allo sviluppo" ha imposto, il che mi aiuta ad entrare nel merito della crisi della cooperazione. Anche le domande che seguono le prime relazioni s’interrogano su come gli stati possano sviluppare cooperazione in un contesto di crisi economica e finanziaria globale.
Per me è un invito a nozze. Perché non è la solidarietà che mi ha mosso in questi anni (o solo in parte), bensì la necessità di comprendere ed abitare i processi globali che, nell’interdipendenza, investono ogni territorio. La cooperazione internazionale non è in questa chiave sinonimo di aiuto, ma l’opportunità di un diverso sguardo sulla propria comunità, per interagire virtuosamente con gli effetti della globalizzazione. Non centra l’intervento umanitario, anche se spesso è questo l’approccio che smuove tante persone, c’è la responsabilità verso il proprio presente. Insomma, nessuno può pensare che non lo riguardi, perché gli effetti di un mondo dove le distanze stanno scomparendo entrano nella quotidianità di ciascuno.
E’quello sulla cooperazione, un racconto collaudato che cerco ogni volta di arricchire con immagini nuove. Allora provo a sondare quale effetto sta producendo nel senso comune il centocinquantenario dell’unità d’Italia, anticipando alcune delle cose che andrò a dire a Roma il giorno successivo. E devo dire che l’idea di Garibaldi come risposta al "federalismo dei confini e della paura" non sembra sia molto convincente, tant’è che il mio richiamo a Ventotene e al tempo del paradigma sovranazionale trova consenso.
Nel seminario come nell’incontro a tavola che lo segue emerge una cosa sopra tutte le altre. Il bisogno di una politica altra, capace di uscire dagli schemi in cui oggi è costretta.