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giovedì, 6 maggio 2010

Al mattino sono a Borgo Valsugana, alle scuole medie superiori, dove m’incontro con un folto gruppo di ragazzi che con la loro insegnante hanno fatto un percorso sulla guerra di Bosnia. Ragazzi diciassettenni, nati proprio in quei mesi del 1993 quando le granate abbattevano il vecchio (così veniva chiamato il ponte dai mostarini) e il fuoco bruciava sette milioni di volumi della Biblioteca nazionale di Sarajevo. Rimasero sul campo centomila morti, nel cuore degli anni ‘90, nella quasi totale indifferenza del resto d’Europa che di quella guerra non ne voleva proprio sapere.

Come sono strane le cose. Tutti loro sanno che cos’è accaduto l’11 settembre 2001 quando nell’attentato terroristico alle torri gemelle morirono 2998 persone. Nessuno invece sa (e non solo fra quel gruppo di ragazzi che mi stanno ad ascoltare) che cosa è accaduto l’11 luglio 1995. L’eccidio di Srebrenica, riconosciuto come genocidio, dove morirono più di 8.000 persone, non è nel ricordo di alcuno. Non solo la data, ma nemmeno il nome di quella città di origine romana.

Perché? Proprio di questa rimozione provo a parlare con i ragazzi di Borgo Valsugana. Vedo molta attenzione, ma anche una grande difficoltà ad entrare in un conflitto così complesso, dove non ci sono i buoni e i cattivi, dove non c’è una parte da prendere. Anche le due ragazze i cui genitori vengono da Stivor, discendenti di quei trentini che dopo la grande alluvione del 1882 che sconvolse la Valsugana andarono a ricostruirsi una vita (o a colonizzare, a seconda della narrazione) nelle lontane terre dell’impero sottratte ai turchi, faticano a parlarne, come le loro nonne che preferiscono il silenzio piuttosto che parlare di quegli anni.

Il silenzio. Era già accaduto dopo la seconda guerra mondiale. Quella che un tempo era la Jugoslavia usciva da una tragedia di proporzioni gigantesche perché lì le armate di Hitler vennero fermate da una resistenza accanita, orgogliosa, senza risparmio di vite. Settecentomila morti. Ma non di tutti. Perché se una parte di quel paese diede vita alla resistenza, un’altra si era schierata con il nazionalsocialismo e aveva partecipato alla mattanza. Nel dopoguerra bisognava costruire "l’unità e la fratellanza" secondo lo slogan di Tito, scavare nella memoria poteva avere effetti destabilizzanti e allora si preferì mettere sopra la storia la cappa ideologica del socialismo. Rimase la retorica. Rimasero, per altro verso, i racconti famigliari, rimase il rancore. E fu un gioco da ragazzi, con il venir meno del collante ideologico, far leva sul rancore fino a quel momento sopito per agitare i fantasmi, i pregiudizi, o semplicemente la paura.

Parlo con i ragazzi della necessità di elaborare i conflitti, ma nel loro immaginario è più semplice comprendere un mondo in bianco e nero. Provo a descrivere una società colta ed emancipata, provo a spiegare che quel che è accaduto negli anni ’90 avrebbe potuto essere evitato se la politica e l’Europa fossero state un po’ più lungimiranti. Che nessuno degli abitanti di Sarajevo si sarebbe mai immaginato che potesse accadere quel che poi è accaduto. Che sarebbe bene imparare dalle vicende della storia per evitare che questa si ripeta all’infinito. E che noi, ragazzi e adulti, non abbiamo saputo né leggere, né imparare granché da quella tragedia sulle porte di casa.

I ragazzi mi salutano con un applauso che sento sincero. Ricambio proponendo loro di mettersi in relazione con i loro coetanei dall’altra parte del mare. O magari di andarci con un viaggio organizzato dalla scuola. Mi chiedono nel caso di accompagnarli… Piccole soddisfazioni.

Già che sono lì cerco Jovan, che di quell’istituto comprensivo è da qualche anno il custode. Viene da Bosanska Krupa, una cittadina sul fiume Una e non lontana da Prijedor, che conosco abbastanza bene se non altro per esserci passato decine di volte. Con Jovan ci siamo conosciuti qualche tempo fa, proprio in occasione di un’assemblea studentesca. Era rimasto colpito dal mio amore verso la sua terra d’origine e così poi ci siamo continuati a sentire. Vorrebbe ricostruirsi la casa andata distrutta nella guerra, non per tornare ma per avere lì almeno un po’ delle sue radici. Pranziamo insieme ed è come se l’incontro con i ragazzi si prolungasse. La nostra è una conversazione da vecchi amici, eppure ci conosciamo appena. Ci proponiamo di fare un viaggio insieme, per andare a vedere quel che rimane della sua vita precedente.

Il giorno dopo mi chiama per dirmi che ha visto lo spettacolo di Roberta Biagiarelli su Chernobyl tenuto proprio lì, ieri sera, nel "suo" teatro della "sua" scuola. Che nel vederlo sì è emozionato e che andrebbe fatto per i ragazzi della scuola, visto che ora c’è qualche apprendista stregone che intende rilanciare il nucleare in Italia. Come s’intrecciano le storie… i ragazzi incontrati al mattino avevano visto "Souvenir Srebrenica", proprio di Roberta Biagiarelli.

 

2 Comments

  1. Lina ha detto:

    ciao michele
    complimenti per tutto il tuo operato, ma mi permetto di dissentire sui morti di srebrenica poichè erano molti meno e prova ne è che tanti erano all’ufficio di collocamento a chiedere lavoro..
    ma non ti preoccupare a rispondermi
    so’ che è inutile iniziare questo discorso
    c’è gente piu’ sorda di chi non vuol sentire e io sono tra quelli
    mi permetto di aggiungere questo post alla triste guerra in bosnia:
    balkan-crew.blogspot.com
    2009 11 moreno-locatelli.html
    e ti supplico di interessarti alla questione kosovara
    il tuo amore per i balkani ti porterà certo a quelle sofferenze che, in questi giorni, stanno aumentando nell’indifferenza di tutti
    come sempre daltronde !
    grazie
    lina
    balkan-crew.blogspot.com

  2. mauro cereghini ha detto:

    Gentile Lina,

    non ho nessuna presunzione di far tornare l’udito a chi non lo vuole…

    però vorrei che su questo sito restasse chiara la traccia che a Srebrenica sono state massacrate almeno 8 mila persone, a oggi circa la metà identificate e sepolte nel cimitero-memoriale di Potocari e le altre ancora da identificare o riesumare. Si può discutere sulle responsabilità – di Karadzic e Mladic, col beneplacito di Milosevic, ma anche dell’ONU. E’ giusto ricordare i crimini di guerra che in precedenza erano stati commessi tanto dagli assedianti serbo-bosniaci quanto dagli assediati musulmano-bosniaci guidati da Naser Oric. E dunque non dimenticare anche le vittime serbe di quella regione. Si può, anzi si deve ricordare che la guerra bosniaca non è stata una guerra solo in bianco e nero, tra buoni e cattivi, perché ha avuto molte sfumature di grigio. E dunque non sono tra quelli che accettano la lettura semplicistica del “è tutta colpa di Belgrado”.

    Ma, nel rispetto del dolore di tutti, non si può aprire, almeno per me ma spero anche per i lettori di questo sito, dubbi sulle 8 mila e più vittime del genocidio di Srebrenica. Quasi un decimo di tutte le vittime della guerra in Bosnia Erzegovina. Quasi il triplo, come ricordava Michele, dei morti per l’11 settembre 2001. Non è solo un numero, ma un pezzo della nostra memoria comune di europei.

    Cordialmente

    MAURO CEREGHINI