Sarajevo, 11541 sedie vuote
martedì, 10 aprile 2012
21 Marzo 2010
martedì, 23 marzo 2010
23 Marzo 2010
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lunedì, 22 marzo 2010

Ieri abbiamo riposto il vestito palestinese più grande del mondo tessuto dalle donne di Hebron e dei villaggi vicini e piantato un ulivo proveniente da Gerusalemme nel parco Santa Chiara di Trento.  Atti simbolici

Tutto bene, dunque, all’insegna del dialogo e del politicamente corretto. Ciò nonostante non riesco a sbarazzarmi di un’inquietudine di cui pure ho parlato nell’articolo che il Trentino ha pubblicato sabato e che trovate nella home page di questo sito. Perché nelle strade di Hebron e in tutta la Palestina c’è chi spara e chi viene ammazzato, chi attua la pulizia etnica e chi la subisce, chi si prende l’acqua e chi ne viene espropriato.

Sono convinto che il dialogo debba essere cercato malgrado tutto, ma non posso tacere il fastidio verso chi non riconosce il sopruso, verso un far parti uguali fra disuguali, per usare l’espressione tanto cara alla scuola di Barbiana.

Ho visto lungo le strade dello Stato di Israele troppi ulivi secolari tagliati di netto alla base del loro tronco per emozionarmi di fronte alla posa di una giovane pianta di ulivo in un parco di Trento. Troppi pini piantati per nascondere le macerie di antichissimi villaggi palestinesi rasi al suolo, per applaudire il rappresentante del Keren Kayemeth Leisrael, un’associazione ecologista che, come viene scritto nel loro sito web, «… nel 1901 iniziò a raccogliere in tutto il mondo i fondi necessari al riscatto della Terra d’Israele, la stessa Terra che oggi tutela con varie attività: ha bonificato paludi e piantato più di 200 milioni di alberi, ha livellato il terreno per la costruzione di infrastrutture e case, ha aperto strade e costruito bacini idrici per la conservazione dell’acqua piovana, ha fatto indietreggiare il deserto creando spazio per gli abitanti del paese».

Quegli alberi, mi spiace, non rappresentano affatto un impegno ambientale. Quelle strade non sono state strumento di comunicazione fra le genti e quegli insediamenti sono avvenuti con la pulizia etnica della Palestina. E’ andata così, che ci piaccia o no. C’è anche un’altra narrazione, che parla di Europa e di Olocausto, che rivendica un risarcimento da parte dell’umanità intera che di quella tragedia porta con sé la responsabilità e che quella tragedia non ha avuto la capacità di elaborare per davvero.  

Tutto questo non significa che oggi non si debba partire da quel che la storia, nel bene e nel male, ha prodotto. Partire dai quei ragazzi che in quei luoghi sono nati, dalle speranze di pace come dalle paure che accendono ed agitano le vite. Ed anche da tutte le persone che a Trento in questi giorni hanno cercato un dialogo che strideva con quel che stava accadendo in Palestina.

Le vie della pace sono difficili, proprio perché le narrazioni faticano ad incontrarsi, ma è per questo che la pace non è banalizzabile. Nemmeno negli atti simbolici. E nemmeno nell’anticonformismo istrionico di Emir Kusturica che si presenta a Bolzano in serata, di fronte ad un cinema Cristallo pieno come nelle grandi occasioni. Che Kusturica sia un grande del cinema balcanico non ci piove. Personaggio controverso, amato ed odiato. Lui, che a Sarajevo è nato e che quella città dovrebbe amare nonostante "non sia più quella di prima", non può dire che la gente di Bosnia Erzegovina ha votato per un partito nazionalista e lì è cominciata la guerra perché questa lettura degli avvenimenti è un insulto alla sua stessa intelligenza. Perché se quella città è cambiata è anche perché qualcuno l’ha tenuta sotto assedio per tre anni e mezzo. Eppure la gente applaude le sue battute scherzose ed anche gli apprezzamenti non proprio lusinghieri verso altri uomini e donne della cultura di quel paese che non c’è più e che la pensano diversamente da lui.

Narrazioni diverse. La pace è farle dialogare. Ma la cosa che mi sorprende e mi addolora (ed infastidisce un po’, per la verità) è come si possa rivendicare tutto quel che si è fatto senza un briciolo dell’autoironia proverbiale di questa gente. La colpa è di qualcun altro, mentre tu (in questo caso Kusturica) sei rimasto quel che eri. Il che, peraltro, non è di per sé una grande prerogativa. Luka Zanoni, amico e caporedattore di Osservatorio Balcani e Caucaso che ha il compito di intervistarlo, fatica a reggere il dialogo senza mandarlo al diavolo.

Diciamo pure che la pace non si aiuta nemmeno così. Potrà costruirsi anche "la città di seconda mano", Mokra Gora, al confine fra la Serbia e la Bosnia, luogo di pace e di bellezza naturalistica come lui la definisce, ma gli orrori di quella valle che ho attraversato tante volte per andare da Kraljevo a Sarajevo passando per Visegrad non si cancellano tanto facilmente. E le storie di vita che lì sono state cancellate non si possono accontentare di un regista che l’ha comprata con quattro soldi.

 

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