Eduardo
martedì, 10 gennaio 2017
10 Gennaio 2017
Sassuolo, sabato 28 gennaio 2017
lunedì, 30 gennaio 2017
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venerdì, 13 novembre 2009

l muri, quelli materiali e quelli immateriali, le speranze e il disincanto, il superamento delle vecchie frontiere e la proliferazione di nuovi confini, l’Europa, il suo cuore balcanico e i suoi confini più complessi e sconosciuti come il Caucaso… Mi immergo in tutto questo nella prima giornata della Conferenza internazionale di Osservatorio Balcani e Caucaso, quasi un ritorno a casa dopo mesi nei quali ho dovuto fare a meno di quella visione strabica che l’angolatura balcanica dava al mio sguardo.

Quando in Osservatorio c’eravamo interrogati sul tema che avrebbe potuto caratterizzare l’annuale appuntamento di OBC era emerso giocoforza quello del "ventennale" della caduta del muro di Berlino. Con una preoccupazione. E cioè che quello della caduta del muro sarebbe potuto diventare un tormentone alla fine insopportabile. La realtà riesce sempre a sorprendere. Tanto che fino a dieci giorni fa dell’anniversario del 9 novembre 1989 nemmeno una parola, poi d’improvviso un’impennata di attenzione molto dedicata alla cronaca di quei giorni e poco o nulla al confronto sulle aspettative che si erano aperte e poi andate ad infrangersi contro le tragedie degli anni ’90.

Il dibattito ha il merito di porre nodi cruciali. Lo fa con le domande che pone l’introduzione di Francesca Vanoni, con gli interventi dei relatori, con le immagini dei video. Il primo di questi, "Generazione ‘89", è dedicato alla Romania ed intervista decine di giovani che nell”89 nemmeno erano al mondo o quasi. E le loro parole sono di un’efficacia descrittiva straordinaria. Uno di loro, nient’affatto nei panni del giovane rampante, dice innocentemente: "io sono un capitalista". Probabilmente voleva dire "sono per la libertà", ma intanto le sue parole sono desolatamente vere. Con l’amico Jovan Teokarevic ci guardiamo e non riusciamo a non scoppiare a ridere, pensando ai due euro e mezzo che avrà avuto in tasca mentre diceva così.

Eppure in quelle parole c’è – che ci piaccia o no – un immaginario possibile. Altri sono la soffusa nostalgia di Fatos Lubonja, intellettuale albanese che da anni vive in italia, al quale il comunismo di Enver Oxa ha regalato una dozzina d’anni di carcere. Ciò nonostante rivendica il diritto all’utopia di fronte all’omologazione del denaro e alla distruzione che l’Europa sta proponendo nei fatti alle coste dell’Albania, fra cementifici e centrali a carbone. Oppure la descrizione dei muri che sono nati dalla disintegrazione dell’area caucasica di cui ci parla Grigory Shvedov. Lavora nell’ong russa Memorial che da anni denuncia le atrocità della guerra cecena e la violenza del regime di Putin contro le minoranze e il dissenso, quelle stesse denunce che sono costate la vita alla giornalista Anna Politovskaja. O ancora la debolezza di stati segnati dall’insicurezza e dall’esclusione sociale di cui ci parla Vesna Bojicic Dzelilovic.

I panel e gli approfondimenti si susseguono. Si parla dell’Europa delle minoranze, di vicende ai più sconosciute come l’esodo forzato della minoranza turca – la più numerosa della Bulgaria – proprio nei mesi che precedettero la caduta del muro. O, ancora, di tragedie confinarie più vicine a noi ma non per questo elaborate, come quelle che hanno segnato il confine nord orientale del nostro paese. Si prova a ragionare dell’Europa come spazio sovranazionale, di un’89 che ha aperto una transizione economica ma non certo un passaggio di pensiero, del tema dell’autonomia come paradigma in grado di andare oltre il principio di autodeterminazione. Un altro filmato ci racconta della notte in cui il muro cadde a Gorizia e vennero aperte le frontiere con la Slovenia: lo fa raccogliendo le storie di ordinario contrabbando fra Italia e Jugoslavia, in realtà un’unica dolcissima storia ben più forte delle sbarre di ferro e del filo spinato.

A tarda serata la parola va ad un testimone d’eccezione del ‘900 al quale abbiamo chiesto di chiudere la prima giornata di lavori: Boris Pahor. Classe 1913, la sua testimonianza attraversa tutto il ‘900. Sloveno di cittadinanza italiana, Pahor ha faticato a veder pubblicati i suoi libri fino a pochi anni fa quando, rotto l’ostracismo, è stato candidato al Nobel per la letteratura. Fa davvero tenerezza quando racconta della sua "Trieste vecia" e delle case del ghetto davanti al cimitero ebraico dove è nato.

La sala di rappresentanza della regione è piena, ma m’infastidisce l’assenza delle istituzioni e della politica. Quasi che i temi che discutiamo non avessero nulla a che fare con i nodi del nostro tempo. Miopia, provincialismo, o semplicemente distrazione. Non so cosa sia più grave. Ciò nonostante, le molte persone che vengono da altri luoghi rimangono comunque favorevolmente stupiti dall’attenzione che una piccola comunità come quella trentina riesce a dedicare a temi dannatamente complessi come quelli che vengono affrontati. Bicchieri mezzi pieni e mezzi vuoti.

Non riesco a pensare che la chiassata sul crocefisso (made in China) possa fare notizia, mentre lo sguardo approfondito sul futuro europeo assolutamente no. Piuttosto perdere voti, perché nel cinismo diffuso l’Europa è un’idea che non costruisce consenso e dunque  meglio non parlarne. Noi ne parliamo, invece, perché se il futuro non sarà europeo non sarà nemmeno di pace.

 

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