mercoledì, 14 ottobre 2009
14 Ottobre 2009
venerdì, 16 ottobre 2009
16 Ottobre 2009
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venerdì, 16 ottobre 2009
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giovedì, 15 ottobre 2009

Ultimo giorno in Palestina, ma forse sarebbe più giusto dire "in Israele". Per non aderire all’inganno e non cancellare il sopruso. L’inganno di uno Stato che non c’è, a dispetto della retorica dei "due popoli e due stati" e il sopruso di un territorio sottratto di giorno in giorno, alla faccia del diritto internazionale. 

Vivo questo viaggio attraverso lo stato di Israele e – diciamo così – quel che rimane della Palestina con un’intensità particolare, non so se riconducibile al mio stato d’animo, alla fratellanza che mi lega ad un amico o a considerazioni più politiche circa il carattere esplosivo che la frustrazione può determinare fra i palestinesi e l’assordante silenzio di un’Europa che non c’è.

Ne parlo con Ali lungo il tragitto che ci porta di buon mattino all’Università Al Quds dove incontriamo il rettore Sari Nusseibeh di cui vi ho parlato nei giorni scorsi a proposito del suo intervento nella conferenza promossa dalla Tavola della pace di Perugia. E’ lo smarrirsi dell’uomo nel tempo globale che ci interessa indagare e questo sarà pure l’oggetto della conversazione con Sari, interlocutore che si rivela attento e curioso. Lo è verso il mio sguardo sul conflitto, le impressioni avute in questo viaggio, l’immagine della Hummer con targa palestinese che stazionava qualche sera fa nel piazzale della natività attorniata da nugoli di ragazzini curiosi che ne coltivano il mito. Immagine vista troppe volte nella vecchia Jugoslavia ferita per passare inosservata.

Ricordo di aver espresso posizioni analoghe a quelle di Nesseibeh già all’inizio del 2000 nel corso di un intervento all’assemblea nazionale di ICS (il Consorzio Italiano di Solidarietà) suscitando più perplessità che condivisione, ma dobbiamo anche dirci fuori dai denti quello della pace sa essere talvolta un mondo conservatore e privo di visione. Posizioni che successivamente si sono sviluppate lungo le coordinate che poi con Mauro Cereghini abbiamo tradotto in "Darsi il tempo". La conversazione si snocciola per flash e nonostante il tempo a disposizione non sia molto (di lì a breve il prof. Nesseibeh s’incontra con il primo ministro palestinese) lo svolgersi dell’incontro è disteso ed accetta subito l’invito che gli rivolgo per venire in Italia e in Trentino nella primavera prossima.

Fuori ad attenderci c’è Munser, nipote di Ali, che in questi giorni ci ha accompagnati attraverso questo paese. E’ un ragazzo di rara grazia e alla mia domanda se in questi giorni si sia annoiato seguendoci nel nostro cercare il punto da cui ripartire quasi si schernisce. Nell’incontro con gli anziani del villaggio di Turem avevo colto anche in lui la nostra stessa commozione.  Ci salutiamo e raggiungiamo il resto della delegazione nella Gerusalemme vecchia. Per arrivare al piazzale delle Moschee, avendo interdetto ai turisti la possibilità di arrivarci direttamente dai tanti vicoli della città araba, si deve passare dal Muro del pianto, attraverso due posti di blocco e di controllo. Ali può entrare direttamente ma noi siamo costretti a fare una fila sotto il sole cocente dell’estate lungo una passerella artificiale che grida vendetta al cielo, anche perché, quasi lo dimenticavo, l’entrata nel piazzale è permessa dai soldati israeliani solo un’ora al giorno. Mentre facciamo questo percorso innaturale, un episodio colpisce tutti noi: una donna palestinese con uno sguardo di rara bellezza viene portata via in catene, legata ai polsi e ai piedi. Quel macabro tintinnio non riesce a distogliere l’attenzione dalla sua fierezza tanto che i quattro soldati armati la scortano con gli occhi bassi e sembrano quasi chiederle scusa.

Prima eravamo stati al Santo Sepolcro, dove ci aveva accolti Wajeeh Nuseibeh. E’ il custode di quel luogo sacro a tutte le religioni cristiane. L’avevo conosciuto quando ero venuto nel 2000 e la sua figura mi era rimasta impressa nella memoria. Ogni volta che, in occasione di seminari e convegni, ho parlato di elaborazione del conflitto e di terzietà ho portato lui come esempio. Sì, perché la sua famiglia da secoli gestisce quella prassi che va sotto il nome di "status quo", ovvero la regola attraverso la quale viene affidata ad una famiglia palestinese e musulmana il ruolo della custodia e della mediazione fra i conflitti che sorgono in rapporto al Santo Sepolcro. Un soggetto terzo, capace di equilibrio e di autorevolezza. E’ lui a scandire i tempi dell’entrata e dell’uscita delle diverse processioni religiose, è lui a decidere tutto quel che riguarda quel luogo che diviene talvolta teatro di risse violente fra i sacerdoti delle diverse fedi. Tre volte l’anno il Custode consegna le chiavi agli ordini religiosi che decidono se rinnovare o meno la loro fiducia al custode. Che da oltre trecento anni viene affidata alla stessa famiglia. Vediamo gente che strofina contro la pietra del sepolcro i propri oggetti personali. Forme di fanatismo ed il commento che ne viene è che "dove c’è troppa religione, scarseggia la fede".

Andiamo a prendere qualcosa di veloce nella trattoria del padre di Munser e, a dispetto delle apparenze del luogo, quel che ci portano è di ottima qualità. Pensate che su quell’attività ci vivono sette famiglie palestinesi. E poi con Ali ed Erica andiamo ad incontrare il Direttore della cooperazione italiana a Gerusalemme, Gianandrea Sandri. E’ di origine trentina e almeno nelle parole sembra che ci si possa capire al volo: vorremmo che nelle nostre attività di cooperazione di comunità il loro ufficio ci accompagnasse creando utili sinergie e sostenibilità delle azioni. Ho già conosciuto il dott. Sandri nei Balcani, quando lavorava a Sarajevo, ma non avevamo trovato occasione di positiva collaborazione.

Finito quest’ultimo appuntamento con Ali ci salutiamo, lui rientrerà in Italia fra qualche giorno. Sono stati giorni intensissimi e grazie alla sua sensibilità e mediazione di parola siamo riusciti ad entrare nella realtà di un territorio violentato dai muri e dal filo spinato che, come ha detto una psicologa israeliana di Sderot nel corso di uno degli incontri avuti in questi giorni, sono  entrati  a far parte della genetica della sua gente. "Non sanno cos’è la pace e si è creata negli anni una dipendenza dalla paura". Parole che dovrebbero far riflettere.

Raggiungiamo gli altri al Museo dell’Olocausto e partiamo verso l’aeroporto. Anche lì la "dipendenza dalla paura" si tocca con mano, persone della "sicurezza" e mitra spianati ovunque. Torno a casa provato e l’ascesso che avevo finora tenuto a bada esplode durante il viaggio di ritorno. Sono le 4.00 del mattino quando avverto fra le mura di casa un po’ di pace.

 

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