domenica, 11 ottobre 2009
11 Ottobre 2009
giovedì, 15 ottobre 2009
15 Ottobre 2009
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mercoledì, 14 ottobre 2009

Le giornate in Palestina sono così piene che non riesco proprio a trovare il tempo per il "diario di bordo". Troppo lungo sarebbe riportare la cronaca di tre giorni come del resto provare a fare una sintesi della ricchezza di incontri e sensazioni che in parte, del resto, ho cercato di raccontare nell’articolo che trovate nella prima pagina.

Scrivo queste note nel viaggio di ritorno da Kana, in Galilea, mentre sono in auto con Ali e Agostino, perché stasera c’è un’altra cosa e perché domani è l’ultimo giorno di permanenza in Palestina e non sarà meno intenso di quelli precedenti.

Allora ho pensato di raccontarvi – per quel che le parole riescono ad esprimere – l’emozione che ho provato oggi nell’ascoltare le parole di Ead Khurg, anziano di Turen, villaggio non lontano da Kana. Devo dire che valgono da sole tutto il viaggio, che pure è stato utilissimo per osservare dal di dentro quel che accade in questo scorcio di medio oriente. Perché il vecchio Ead dopo averci ascoltato ci dice che "incontri come questi si svolgono grazie ai profeti oppure per iniziativa di persone dotate di grande umanità". Con gli anziani di Turen ci incontriamo per parlare del progetto del "Vino di Cana", un’idea che con Ali coltiviamo da qualche anno ma che ancora non siamo riusciti a concretizzare pur avendo ricevuto l’imprimatur del presidente Dellai. Le ragioni sono diverse, dai bombardamenti che piovevano in Galilea dal vicino Libano alla difficoltà di trovare interlocutori credibili per un’iniziativa tanto complessa quanto di straordinario valore culturale prima ancora che economico.

L’idea progettuale la potete trovare in questo sito nello spazio dedicato alla Palestina all’interno della sezione "Euromediterraneo". E quindi qui non ne parlerò. Ma quando ci sediamo nel "diwan", lo spazio della conversazione e del caffè arabo, con queste persone dai volti segnati dagli anni e che nella loro vita ne hanno viste di tutti i colori, racconto da dove vengo, che rappresento lì non una ong ma una regione che ha conosciuto guerre e nuovi confini, povertà ed emigrazione, e quale sarebbe l’idea progettuale, vedo i loro occhi brillare di commozione (anche quelli di Ali, per la verità).  Ci dicono che, come è ovvio, ne devono parlare ma avverto di aver toccato le corde dell’orgoglio ferito da anni di occupazione. Qui siamo nello Stato di Israele, città e villaggi annessi con la guerra del 1948, ma che hanno conservato gran parte della popolazione palestinese. Sono semplicemente cittadini di serie B di uno stato che gli ha rubato la storia.

Per loro non è facile prendere sul serio questa gente che viene da fuori dopo quel che il destino gli ha riservato.  Ma grazie alla voce di Ali che traduce le mie parole, vedo la loro attenzione crescere man mano che si rendono conto che non siamo i soliti "internazionali" saccenti che calano i loro progetti spesso inutili quando non dannosi, su territori che non si possono nemmeno permettere di mandarli al diavolo.

Ne parleranno fra loro e con i loro figli, come si fa per le cose importanti, e ci diranno. Intanto parliamo con Mohammed , il nostro riferimento locale per questa iniziativa, sui passi da compiere, in Galilea come in Trentino, per attivare competenze e risorse, tenendo conto che – se la cosa sarà nel loro interesse – dovremmo rivederci e stabilire i reciproci impegni.

La circostanza è tale che Agostino Zanotti, fino a quel punto osservatore, racconta loro di quattrocento e passa persone venute in Palestina dall’Europa per parlare di pace e del fatto che nella conferenza di ieri a Gerusalemme si sarebbe aspettato di provare quell’intensità di comunicazione che oggi trova in questo luogo sperduto della Galilea.

Perché nella conferenza di Gerusalemme i palestinesi e gli israeliani praticamente non ci sono. Con un’unica vera eccezione rappresentata dall’intervento del rettore dell’Università "Al Quds", considerato dagli organizzatori una positiva provocazione ma pur sempre una provocazione, quel che il sottoscritto va dicendo e scrivendo da qualche anno tanto sul piano della necessità di porre il conflitto israelo-palestinese in una prospettiva postnazionale, quanto di dire basta ad una logica degli aiuti e della cooperazione senza porre alcuna condizione politica. Per il resto, nient’altro di nuovo sotto il sole. A meno di non voler spacciare per nuova l’idea di coinvolgere l’Europa proprio nel momento più acuto della sua crisi di rappresentatività. Credo sia necessaria una diagnosi senza reticenze di questo nostro mondo della pace vittima della propria autoreferenzialità e di una cultura che non sa porsi in una prospettiva di diffuse relazioni territoriali. Era questa la possibile svolta che speravo desse un senso alla parola "responsabilità". Invece nemmeno una parola sulla cooperazione di comunità. Mi spiace, ma proprio non ci siamo.

Ne parliamo con alcuni dei partecipanti da "Zalatimo", il pasticcere della vecchia Gerusalemme che ancora sopravvive alla vecchiaia e all’amarezza di non aver più il forno a legna. Suo padre, in punto di morte, lo raccomandò  di aver a cuore il forno che ora è sostituito da un molto più impersonale strumento a gas. Ma la capacità di riflessione dentro i nostri mondi è pressoché scomparsa, preferendo il ricorso ai rituali piuttosto che il nulla. Ma che sa preoccuparsi se un ragazzo di diciotto anni fa una domanda assolutamente legittima al pacifista israeliano che, in quel di Sderot, ci parla dello studente ammazzato nel campus dove siamo da un razzo "Qassan" senza nemmeno dire una parola sull’assedio di Gaza costato la vita a più di mille persone. "Noi abbiamo fatto un percorso di formazione" ci dice uno dell’organizzazione. Mi chiedo cosa cavolo avrà imparato se poi il dialogo diviene vuota retorica. Ogni perdita di vite umane ha valore assoluto, ma la reticenza non aiuta affatto il dialogo. Mentre ce ne andiamo il vecchio Zalatimo quasi rincorre Ali per dirgli che la prossima volta troverà il forno a legna ricostruito per suo figlio che (forse) continuerà a fare le sfoglie più buone di tutta Gerusalemme.

Credo faccia bene tanto agli israeliani quanto ai palestinesi ricevere stimoli veri anche se dolorosi  piuttosto che pacche sulle spalle, simbolo di un paternalismo che non li aiuta affatto a porsi le domande giuste sul perché la questione morale del nostro tempo (come la ebbe a definire Nelson Mandela) è finita. Perché di questo si tratta come mi dice sommessamente Padre Ibrahim Faltas, già custode della chiesa della natività, quando lo incontro nel refettorio della parrocchia di Gerusalemme. Con Ibrahim siamo amici e ci parliamo senza alcuna preoccupazione di ferire le reciproche sensibilità. Per questo il dialogo con lui non è banale. Ci accordiamo di andare a cena insieme in una Betlemme letteralmente annichilita dal muro che la circonda, priva di vita notturna là dove prima c’erano le vie affollate di gente. Mura che uccidono l’umanità dei luoghi e delle persone.

E’ andata così. Non ci resta che lavorare sulla rinascita culturale, visto e considerato che non stiamo parlando d’altri, ma della nostra stessa cultura e delle nostre stesse vite. Intanto riprendiamoci queste sei ore di sonno perché a forza di incontrare gente da un angolo all’altro di questo paese la stanchezza si fa davvero sentire.

 

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