venerdì, 9 ottobre 2009
9 Ottobre 2009domenica, 11 ottobre 2009
11 Ottobre 2009sabato, 10 ottobre 2009
Quanto è diverso. Dove un tempo mi sembrava albergasse la speranza oggi vedo solo un’umanità perduta. La ragione di una terra è diventata un incubo. Una densità che ovunque nella West Bank sta raggiungendo e oltrepassando Gaza, ovunque rifiuti che bruciano a cielo aperto, militarizzazione del territorio, assenza di libertà, arbitrio. Ho come l’impressione che si sia oltrepassato il limite del non ritorno: forse un giorno si potrà abbattere il muro della vergogna, ma certo non si potrà tornare indietro dalla realizzazione dei nuovi insediamenti che rendono irreversibile il sopruso, così come non si tornerà indietro dalla devastazione del territorio con l’edificazione selvaggia nei territori palestinesi. Una corsa all’occupazione del territorio che rappresenta un massacro per tutti.
Non me la sento di contraddire i miei giovani compagni di viaggio che vorrebbero fare qualcosa, dicendo loro che non c’è più nulla da fare. Che la partita è persa, sul piano militare come su quello economico, sociale e culturale. Rimarrà l’orgoglio per un’appartenenza irriducibile, un’identità alla quale aggrapparsi, ma mi sembrano prevalere i processi di omologazione culturale che investono tanto i comportamenti e le scelte collettive.
Di fronte al sopruso, una persona sensibile dice "basta" e s’interroga su quel che può fare per cambiare questa situazione. Rischiando però di cadere in questo modo nella logica dell’emergenza, del scegliere da che parte stare visto che qui è abbastanza chiaro chi siano gli oppressi e chi gli oppressori. E’ lo schema percorso mille volte, per un ragazzo di diciott’anni magari è la prima, ma personalmente non voglio ricaderci. Non sono qui per portare solidarietà o aiuti. Sarebbe già tanto saper raccogliere immagini. Ascoltare. Cercare di capire dove sta andando questa terra. Farsi un’idea se ancora esiste un bandolo della matassa dove riprendere la trama di un ragionamento possibile. Comprendo al tempo stesso che fra noi non c’è un percorso comune condiviso.
In mezzo a questi pensieri si svolge il nostro programma di incontri e visite. Con il Sindaco di Beit Jala, in primo luogo. Che non intende uscire dalla logica delle grandi opere, ma intanto il Centro sociale realizzato con il contributo sostanzioso della comunità trentina ed inaugurato in primavera dal presidente Dellai ancora non è a disposizione della gente, chiuso perché alcuni lavori all’esterno non sono completati e questa è una buona ragione per chiedere nuovi finanziamenti. E nuove opere, sulle quali anche noi talvolta non sappiamo dire di no. Ricadendo così, più o meno involontariamente, nella vecchia cooperazione. Donatori che non s’interrogano sulla reale utilità delle cose e su come queste vengono intese dalla comunità locale da una parte, dall’altra beneficiari che – pur di far girare quattrini e gestire fette piccole o grandi che siano di potere – ti chiedono di realizzare opere che poi regolarmente rimangono lì come cattedrali nel deserto, prive d’anima perché nessuno le pensa come sue. Proviamo a spostare la discussione sul programma di attività da realizzare nel centro, ma il problema di fondo permane.
Tanto che le associazioni del posto che incontriamo in serata non sapevano nemmeno del nostro arrivo. Dopo il sindaco la giornata prevede una serie di incontri a Ramallah e dintorni. Il grosso della delegazione si è già spostato di buon mattino verso la capitale dell’ANP,a visitare un campo profughi. Noi li raggiungiamo in tarda mattinata con un taxi. E qui, su un banalissimo taxi, avviene un episodio che mi riempie di commozione. Il taxista sfreccia come un forsennato verso la nostra destinazione, lungo strade impervie visto che le autostrade sono in larga parte interdette ai palestinesi. Parla con Giulia, donna palestinese che vive in Trentino da molti anni, attivista di "Pace per Gerusalemme e nostra interprete. Gli chiede di dov’è e quando Giulia gli risponde "di Beit Jala" si avvia un fitto dialogo per sapere i dettagli della sua famiglia. Emad, questo il nome dell’autista, e Giulia hanno la stessa età, si scrutano e quando Giulia gli dice di chi è figlia, Emad gli risponde sorpreso che non sapeva che "Ala" avesse una sorella minore. Ma Ala è il nome da bambina di Giulia e così scoprono che un tempo loro due erano compagni di giochi. L’emozione è grande, io e Erica con loro. Piccole storie di vita, di separazione e d’incontro.
Raggiungiamo Ramallah dove ci riuniamo con il resto della delegazione. E andiamo a Bilin, nelle vicinanze del muro che si sta costruendo nonostante la mobilitazione della gente del posto. Ogni settimana il Comitato popolare Libertà e Giustizia organizza una marcia nonviolenta ma questo non li mette certo al riparo dalla repressione più brutale, con gas lacrimogeni, pallottole di gomma e tutto il resto. Ce le fanno vedere le pallottole di gomma, veri e propri proiettili che nei mesi scorsi hanno ucciso uno di loro. Entriamo nella casa di Iyad Burnat dove ci viene mostrato un filmato sulle azioni di resistenza alla costruzione del muro e dove ci viene offerto il loro cibo, ottimo e all’insegna del turismo responsabile. Risaliamo sul pulmino e andiamo nei pressi del muro che in questo caso è filo spinato percorso dall’elettricità e sorvegliato dalle telecamere. I nostri accompagnatori non intendono farci scendere, suscitando l’ira dei ragazzi. Vorrebbero fotografare, magari compiere qualche gesto simbolico. Difficile spiegare che non siamo lì per questo.
Ritorniamo sui nostri passi e di nuovo a Ramallah. Una grande città, dove grazie al suo ruolo di capitale di fatto sorgono edifici modernissimi e dove le case sono molto costose. Ministeri, ambasciate, attività economiche, i primi centri commerciali. Incontriamo l’associazione Adamir che si occupa della tutela dei prigionieri politici palestinesi in Israele come in Palestina. Cose più o meno conosciute, ma il racconto ti coinvolge e il velo della legalità israeliana e del suo stato di diritto ne esce stracciato. Anche l’AN, per la verità, non ne esce granché… Accanto a noi, nel bar all’aperto dove si tiene l’incontro, delle ragazze palestinesi tirate di tutto punto e senza traccia di chador fumano il narghilè. E la vita che si svolge nel centro è uguale a quella di altre capitali. Un passaggio alla tomba di Arafat, una costruzione raffinata, per rendere omaggio al vecchio comandante, e poi ritorniamo in un traffico caotico verso Beit Jala.
Nemmeno il tempo di scendere dal bus e già ci attende l’incontro con le associazioni. Ci chiedono perché il centro civico non è ancora agibile e la discussione ci riporta all’inizio di questo diario. Ad una cooperazione che fatica a scrollarsi di dosso le vecchie logiche. Ne parleremo anche domani, nel workshop che ci attende dopo la festa del raccolto delle olive.
Nel centro di Betlemme, nella piazza della natività dove andiamo a mangiare qualcosa, mi trovo con Agostino Zanotti, amico di tanti viaggi in Bosnia Erzegovina e di anni di cooperazione che insieme abbiamo cercato di inventare diversa. E’ quasi mezzanotte, in uno dei luoghi più carichi di storia di questa terra. Le nostre vicende s’intrecciano, ci raccontiamo e ci chiediamo cosa cavolo fanno lì tanti italiani quasi avessimo qualcosa da insegnare a qualcuno quando in tutto il mondo l’immagine di Berlusconi ci riempie di vergogna. Forse siamo noi a dover imparare qualcosa. Del resto, siamo lì per questo.